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Wimbledon e Wembley, la (doverosa) domenica bestiale del Presidente

Matteo Berrettini

Ha annunciato per tempo che sarebbe stato a Wembley per godersi la finale degli Europei di calcio con gli azzurri di Mancini splendidi protagonisti, qualcuno avrebbe dovuto immaginare, al Quirinale, che un altro vessillo italico avrebbe potuto sventolare, domenica, su uno dei templi mondiali dello sport: il campo centrale dell'All England Lawn Tennis Club. Un luogo in cui non ti ammettono come socio neppure dopo una risonanza magnetica: servono almeno tre palline, un cerbiatto e due fregi sull'anello d'oro. E ci scappa da ridere, ma gli inglesi sono così, irritanti nella loro aristocrazia, eppure adorabili.
Matteo Berrettini entra nella storia dello sport italiano portando per la prima volta il tricolore in finale nel torneo di tennis più prestigioso al mondo, il mitico Wimbledon, torneo che ti consegna all'eternità dello sport.
Il nostro presidente Mattarella - lo facciamo rilevare con dolce e referente ironia - adesso si trova a un... bivio: quando prendere l'aereo per Londra domenica. La finale di Wimbledon si giocherà alle 15, quella di Wembley alle 21. Tra un luogo "sacro" e l'altro intercorrono 30 chilometri. Impensabile che un'alta istituzione italiana non sia a Wimbledon domenica, fra l'altro ospite del Royal Box, occupato dalle medesime teste coronate che in serata si trasferiranno a Wembley. Nel 2015 il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, volò nottetempo a New York per godersi la finale femminile tutta italiana degli Us Open tra Flavia Pennetta, che poi prevalse, e Roberta Vinci, anche quello un avvenimento storico. Ma l'impresa di Matteo Barrettini, consentitecelo, ha un altro spessore, per valori tecnico e storico, per dimensione, per inarrivabilità: a Wimbledon si gioca sull'erba e noi siamo dei terraioli. Non ci riuscirono neppure i migliori tennisti italiani di ogni tempo, Adriano Panatta e Nicola Pietrangeli, eppure capaci di imporsi al Roland Garros per una e due volte: Adriano si fermò nel '78 ai quarti contro il francese Duprè, Nicola nel '61 in semifinale al cospetto di Laver, in entrambi i casi la paura fece "90".
Matteo Berrettini è arrivato laddove pochi, pochissimi, e siamo tra questi, immaginavano potesse approdare: la finale di uno slam, perdippiù quello londinese, il più prestigioso. Ci è arrivato fra l'altro con un percorso quasi netto: sei turni superati, tre set persi, 18 vinti. Non ha mai tremato in nessuno degli incontri e sull'erba ha uno score di 11 successi consecutivi: due settimane fa ha trionfato al Queen's, altro antico salotto dell'aristocrazia tennistica mondiale.
Matteo viene da lontano. Due colpi devastanti, servizio e dritto, capacità di leggere scambi e soluzioni durante la partita, duro lavoro per coprire il fronte sinistro del campo invero debole. Da qui lo slice di rovescio per arginare gli affondi, la palla corta, il lungolinea per invertire l'andamento del palleggio. Intelligente, forte di testa e di carattere, con il lavoro è approdato laddove in pochi potevano immaginare che potesse assurgere: a un passo dal paradiso. In semifinale ha sconfitto uno splendido esemplare di tennista moderno, il polacco Hurkacz, giustiziere a Miami del nostro "predestinato" Sinner, ma soprattutto giocatore che ai quarti ha umiliato il dio di questo sport, Roger Federer. La cornice semplificata che prospetta il quadro dell'impresa di Matteo Berrettini.
Caro Presidente Mattarella, anticipi il volo per Londra domenica. Ne vale la pena. E se poi dovesse capitare che il tricolore, a fine giornata, dovesse sventolare sul Big Ben, trasformiamo in "rosso" nel calendario l'11 luglio: la Giornata della resilienza, del talento e della forza italica... sotto le insegne dello sport, che è sempre anticipatore e lettura in filigrana delle dinamiche sociali.

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