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Una strana estate elettorale fra alleanze traballanti e sospetti

Il 25 settembre snodo cruciale per il Paese

Temi e suggestioni di mezz’estate: il Fondo monetario internazionale che ammonisce a trecentosessanta gradi sui rischi concreti di una recessione globale, i problemi legati al gas, ai fondi del Piano di ripresa e resilienza, la marea di tassisti e assistenti di volo ora inferociti ora un po’ meno, a seconda di come – per fortuna o per merito – volgano le umane cose alle nostre latitudini. Altre prelibatezze: la guerra in Ucraina, “declassata” persino dai media – conflitto lungo, simil-Afghanistan, con cui non si potrà di certo “aprire” i giornali per l’intero anno –, e il Covid, tristo habitué cui abbiam preso più o meno le misure e ormai viene a tedio perfino agli ipocondriaci. Infine: c’è caldo, tantissimo caldo, e ogni estate è peggiore delle precedenti e migliore della successiva. Ma il top è l’aver mandato via Mario Draghi anzitempo. Roba per dissennati.

Beh, cominciamo dal fratello di Mubarak: sì, l’ottantacinquenne Silvio Berlusconi in odore di presidenza del Senato. Ché questo gli avrebbe garantito il sodale Matteo Salvini in cambio… dell’irresponsabilità: ovvero far fuori Draghi, e chissenefrega se il deficit è diminuito e ci sono più soldi da riconvertire in aiuti agli italiani. Certo, il chissenefrega ha causato uno smottamento in Forza Italia: molti pezzi pregiati, vista sconfessata la loro storia – così hanno detto –, hanno fatto le valigie e stanno perfezionando la loro sistemazione in una casa (tutti con Carlo Calenda?) che dia loro accoglienza, ragioni e soprattutto ruolo. Ma, appunto, chi se ne frega? Berlusconi, “allontanato” da Palazzo Madama per la legge Severino, vuol tornarci – prima di “riposare in pace”, espressione da lui riservata agli ex ministri Brunetta e Gelmini – passando per la porta principale, e amerebbe sedersi sulla poltrona più importante. Giorgia Meloni, invece, vuole categoricamente – in caso di vittoria della coalizione – essere premier, giacché Fratelli d’Italia dovrebbe ottenere (il 25 settembre, rispetto agli alleati) più voti. Ieri, al vertice del centrodestra, Berlusconi ha provato a intiepidirne gli ardori, ma la post-fascista de’ Roma non si fida e ha preteso chiarezza – prima delle urne – su chi andrà a Palazzo Chigi e, pure, su come saranno spartiti i collegi. Meloni turba i sonni d’almeno un italiano su tre, e d’almeno due editorialisti stranieri su tre. I timori più forti sono legati all’inquietante idea di Europa – tra Orbán, l’estrema destra spagnola di Vox e quella polacca del Pis – della leader di FdI. Nessuno s’agita, in realtà, per quello che la signora davvero pensa – le giravolte di questi anni parlano da sole –, preoccupa quello che la signora avrà necessità di concedere alla sua platea, tra ultrà della Lazio e personcine umorali che vivono in regioni perlopiù povere, afasiche e iperpopuliste. Salvini, normalizzati i colonnelli (troppo razionali per i post-padani?) Giorgetti e Zaia, mostra di potersi accontentare del Viminale. Dategli due barconi e due Ong da maledire, e Salvini dà il meglio di sé tra identitarismo nazionale e bassa demagogia quattro-salti-in-padella-findus.

Conte sembra destinato all’irrilevanza. Ha capito, al di là del rancore personale per Draghi (un “argomento” che gli ha semplificato le cose), che se il M5S fosse rimasto appiattito sull’esecutivo dell’ex presidente Bce, nel 2023 avrebbe raccolto poco; sicché ha “strappato”, ma ora all’orizzonte non s’intravvedono le rose e i fiori sperati. Tutt’altro, anzi. E Grillo al tramonto e Di Battista mai sbocciato non convincono nemmeno il più temerario dei bookmaker.

E il Pd? Alle prese con il rebus alleanze, prova a fiutare l’alchimia giusta: fra il commestibile Carlo Calenda il sognatore e l’indigesto Matteo Renzi il pragmatico, il primo ancora un Ufo per la gran parte degli aventi diritto al voto, il secondo odiatissimo oltre ogni irragionevole colpa da troppi italiani. Il contorno: l’Unione repubblicana vagheggiata da più d’un fuoriuscito di FI, l’inossidabile passione civile di Emma Bonino, la sinistra più sinistra che pare far la sua (spesso apprezzabile ma anacronistica) corsa fuori dalla Storia.

Serve uno sforzo serio di comprensione, per salvare il Paese. Sarà, come ammoniscono i sindacati, un autunno duro. E bisogna quindi scegliere col cervello, non con la pancia. Il Parlamento uscente – gioverà un promemoria – ha espresso un governo gialloverde, poi giallorosso; infine ci si è affidati a Draghi, mandato a casa dal “cinismo” di 5S, Lega e FI. Un Parlamento “sbagliato” non dà mai buoni frutti; e non può essere demandato alla pazienza del Quirinale di emendare all’infinito a difesa dell'interesse nazionale. Meglio far bene a monte che confidare in correzioni (complicate) a valle. Quindi sarebbe auspicabile, prima delle elezioni, riflettere bene. Da una legislatura a un’altra fare tesoro: vale quantomeno la pena di provarci.

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