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L’intelligenza artificiale e il nome nuovo delle cose

Riflessioni a margine del caso della fotografia realizzata dall’AI e vincitrice di un prestigioso premio. La capacità di creare, in ogni ambito della conoscenza e dell’arte, è sempre stata nostra orgogliosa prerogativa. Adesso è necessario esplorarne, forse “riposizionarne” i confini

Si può ancora parlare di pittura se tagli una tela e proponi una terza dimensione? E cosa è diventata, la fisica, da quando è stata scoperta la quarta, delle dimensioni? Cosa la letteratura da James Joyce in poi? Cosa la scultura, dalla fondamentale svolta di Henry Moore? Cosa la filosofia, abbandonati gli sforzi sistemici in nome di un approccio obbligato che avanza per particularia (giacché il Tutto, qualsiasi tutto, è “negato”)? Cos’è diventata, la politica, se può permettersi di accantonare – e mai dovrebbe accadere – la nobile umana tensione all’equità e alla giustizia, sì che tutti possano aver accesso a identici diritti, a eguali opportunità, a liberi (ma davvero liberi) sogni? Cosa sono l’amore e il sesso, se li abbiamo costretti – tra coordinate di sconsiderato consumismo – in vesti che ne tradiscono gli aspetti più genuini? Sì, ora stiamo proprio parlando dell’intelligenza del sentimento, di visione in ogni specchio attuale e nel futuro, d’ampiezza di emozioni, della vocazione alla gioia ma pure all’autocritica, al ripensamento, al rammarico, al dolore. Alla speranza.
Artificio è raggiro, menzogna che – per quanto imbellettata, e scoppiettante dell’inafferrabile “materia” dei fuochi fatui, la stessa d’ogni fedifraga apparenza – suona e risuona nella sua distanza dalla “verità”. Non può che sporgersi, l’intelligenza da laboratorio, sul baratro – inaudito e impronunciabile – della realtà, che è però, forse, la più riuscita delle bugie, quella che meglio riesce a “dar prova” di aver organizzato il razionale e reso “unanime” il riconoscibile. Qualcosa di condiviso su larga scala, un unico che è – sempre – rassicurante e nemmeno ci costringe a guardare e rifarci per forza a un dio. L’esplorazione umana, quando le capita di approdare a inaspettati rivoluzionari lidi – quali che siano –, sia che abbia fatto ricorso o no a riuscite o a meno riuscite tecnologie, riposiziona le cose. La cucina molecolare sposta la storia della cucina, il fotoshop sposta la storia della fotografia, la guerra in Ucraina sposta la storia delle guerre.
E, ricorriamo pure alla frase fatta più gettonata e ormai stucchevole di questi anni, niente è (sarà) più come prima.
Il mondo, fino all’altro ieri, si avventurava verso propaggini nuove ogni volta riformulandosi nell’esatto punto in cui era giunto e, lì, abilmente riadattato: il massimo delle armi era, da subito, il massimo delle armi spendibili in battaglia; l’esperienza-limite d’ogni frontiera, se pure propiziata da strumenti inediti, era immediatamente riproponibile; ogni conoscenza acquisita diventava istantaneamente fruttuosa. Ora non è più così: viviamo prigionieri di un costante e stressante esercizio al ribasso. Per sopravvivere conteniamo – teniamo dentro e arginiamo – ogni sviluppo che, insidiosamente, potrebbe collidere col progresso, noi tutti “vittime attive” del consumo purché sia, il peggiore dei mali. Per sopravvivere sentiamo di dover dare un nome nuovo alle cose, per tentare di proteggerne il senso. Insomma possiamo crescere, signori, ma non così in fretta.

Ecco spiegata la frenata repentina di Elon Musk sull’intelligenza artificiale, ecco spiegato l’aspro intrigante dibattito sull’opera – bellissima – presentata dall’artista Boris Eldagsen al “Sony World Photography Awards”, vincitore che provocatoriamente ha rifiutato il primo premio poiché “consapevole” e “colpevole” d’aver gareggiato con un’immagine che «tutto è fuorché una foto». Come definire quella strana cosa ottenuta, dopo aver impartito un comando scritto – neanche l’ombra d’uno scatto fotografico –, grazie a un’intelligenza artificiale? Ma se, tenendo bene a mente la netta differenza tra naturalia e artificialia, provassimo a considerare ogni “manufatto” come, per l’appunto, umano, e perciò meno ci preoccupassimo delle etichette? Giacché tutto ciò che è umano è – per assioma – fin troppo umano? Ecco che improvvisamente diverrebbe meno importante stabilire se quella di Eldagsen è una foto, se quella di Lucio Fontana è pittura, se quella di Joyce è sempre letteratura, se quella di Ferran Adrià è cucina, eccetera eccetera.

Viviamo, in modo più che ostentato, nell’artificiale specie da quando il benedetto / maledetto moderno, compiacente “espressione” per mascherare-dissimulare la troppo straripante attualità, ha fatto capolino nel nostro mondo “sempre più che” industriale: forse sarebbe il caso di rassegnarci all’idea che – come già nel Rinascimento sapevano – gli uomini non danno origine a naturalia, ma “soltanto” ad artificialia. I puristi della fotografia, pochi superstiti, già da decenni non mostrano entusiasmo per le immagini digitali: ogni “correzione” che si avvalga di mezzi tecnici esorbitanti rende il prodotto improprio, fasullo, blasfemo, inaccettabile. Tutto ciò che facilita “oltre misura” snaturerebbe la sacra specificità che, meglio se includendo fatica, si dà ora in questa / quella pratica, ora in questa / quell’arte.
Ebbene, non ci sembra che la magnetica immagine di Eldagsen – pur comprendendone, è ovvio, la differenza – sia chissà quanto più “impura” di quelle che è possibile “creare” oggigiorno con un qualsivoglia scalcinato telefonino in mano a un qualunque essere umano agli albori del Terzo millennio. Certo, inquadrare con un mirino, e scegliere lo scatto, non è dare indicazioni tramite... generiche e già accondiscendenti istruzioni scritte. Ma quanto l’uso d’una “bassa” (solo perché già più diffusa) tecnologia può consentire di chiamare foto un numero sterminato di immagini “truccate”? E quanto, invece, l’impiego di una tecnologia… esageratamente all’avanguardia (finora maneggiata da pochi) dovrebbe, d’ufficio, determinare l’esclusione di “Pseudomnesia - The Electrician” (è il titolo esemplare dell’opera proposta dall’autore tedesco) dal mondo artistico cui sembra comunque appartenere?
Snaturare è degli uomini. E in talune fasi – specie ora, mentre si stenta a distinguere i prodotti umani dai prodotti “tecnici” – non andrebbero forse chiamate, le cose; ma fatte e basta. Prima o poi sapremo che nome eventualmente ridare o dare a ciò che di “vecchio” e “nuovo” ci sta dintorno. All’antiquariato e al contemporaneo, colto nel suo inarrestabile fisiologico sommovimento. Purché si rimanga, imperativo morale, in prossimità del Bello – infatti, riguardo alle guerre, campionario di orrori, sarebbe il caso di calmierarla sul serio, la frenesia tecnologica –.
Non dobbiamo aver paura di rifondare noi stessi. Prodigiosi come siamo, questa “situazione” – in fondo – noi ce la siamo diligentemente cercata.
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Sicuri che sia mai esistito altro spazio, per chi non è fatto della pasta degli dei, fuori dell’artificio?
(Forse l’uomo – pensiero troppo oltraggiosamente laico? – è costitutivamente raggiro).

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