I colossi mondiali dell’automobile sono pronti a spegnere i motori dei loro impianti di produzione e di assemblaggio nel Regno Unito di fronte allo spettro di una Brexit no deal che le mezze rassicurazioni del governo May a margine della ripresa di queste ore dei negoziati supplementari con Bruxelles non riescono certo a far sparire. L’ultimo avvertimento arriva da Bmw e Toyota e ha il sapore un pò di un monito preventivo (affinché l’epilogo di un addio dall’Ue senz'accordo sia in effetti evitato); e un pò di un piano di fuga d’emergenza preparato ormai sul ciglio dell’abisso. Il timore di un ritorno delle barriere fra l’isola e il continente contagia molti nel mondo del business, dal settore bancario a multinazionali tipo Sony. Ma fra i grandi produttori di veicoli, costretti a fare i conti con un mercato globale che non fa sconti, alimenta addirittura venti di bufera. Parlando a SkyNews, dal salone di Ginevra, un consigliere d’amministrazione della Bmw, Peter Schwarzenbauer, non ha escluso «misure estreme" dinanzi allo «scenario peggiore» d’una hard Brexit.
E in particolare «pericoli reali» per il destino delle Mini - simbolo delle quattro ruote britanniche divenuto tedesco in versione moderna e iper vitaminizzata - che tuttora vengono sfornate nell’Oxfordshire. Mentre il capo delle operazioni europee di Toyota, Johan van Zyl, ha additato gli ostacoli legati a un brusco distacco di Londra da Bruxelles come potenzialmente "troppo alti» per garantire la competitività futura nel Regno della sua azienda e il mantenimento degli investimenti previsti. Nei giorni scorsi ad annunciare un passo indietro erano stati altri due giganti giapponesi: Nissan (rinunciando a un progetto extra per la realizzazione dei suv X-Trail presso le catene di montaggio inglesi di Sunderland, dove secondo i media potrebbero essere tagliati anche 400 posti di lavoro già esistenti); e Honda (con il via libera alla chiusura entro fine 2021 dell’impianto di Swindon).
In quei casi i vertici aziendali avevano evocato motivazioni ufficiali diverse rispetto alla Brexit, senza tuttavia convincere troppo gli analisti. Sia come sia, in gioco c'è molto di quel che resta delle fabbriche metalmeccaniche d’oltreManica, con annesso il pane di migliaia di lavoratori. Mentre Ford paventa a sua volta conseguenze «catastrofiche» nell’eventualità di un no deal. E Andy Palmer, amministratore delegato di un altro brand storico dell’automobile british, l’Aston Martin di James Bond, mette in guardia senza eufemismi dal pericolo di «un bagno di sangue». Se non bastasse, al coro si unisce Willie Walsh, ceo del gruppo che controlla British Airways, dicendosi «scioccato" della mancanza di chiarezza o progressi certi, a una ventina di giorni appena dalla data formale del passo d’addio del 29 marzo. Qualche rassicurazione - a margine dei colloqui ripresi a Bruxelles da Geoffrey Cox, attorney general del governo di Theresa May, e del capo negoziatore europeo Michel Barnier sulle garanzie «legali» allegate all’accordo di divorzio che Londra chiede per superare l’opposizione del Parlamento di Westminster al backstop, la contestata clausola di salvaguardia del confine aperto irlandese - ha provato a darla nelle ultime ore il ministro degli Esteri, Jeremy Hunt.
Evocando «segnali ragionevolmente postivi» e giurando che l’esecutivo britannico non vede «altra soluzione che un deal» con l’Ue, comunque vada il prossimo voto parlamentare del 12 marzo. Ma sono rassicurazioni insufficienti in mancanza di pezzi di carta firmati e ratificati. Mentre cresce il numero di coloro - privati o aziende - che a scanso di equivoci iniziano a far scorte di generi primari d’importazione. E i Parlamenti locali di Scozia e Galles lanciano al governo May una sfida da sos, non vincolante ma politicamente minacciosa sul fronte dell’unità del Regno: approvando all’unisono un’inedita mozione coordinata in cui dicono no al piano della premier, no a qualunque no deal e sì - come minimo - a un rinvio della Brexit.
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