«L'ultima chance» per portare a casa la Brexit, almeno sotto la sua premiership. Theresa May presenta come «un nuovo accordo» il testo riveduto e corretto della legge quadro sull'uscita dall’Ue (Withdrawal Agreement Bill) che s'appresta a portare a Westminster il 3 giugno nell’estremo, disperato tentativo di provare a sbloccare la ratifica del divorzio da Bruxelles.
Lo fa riaprendo i giochi (per quanto forse troppo tardi), scaricando di fatto una fetta cospicua del suo Partito Conservatore e corteggiando le opposizioni, Labour in testa, fino a promettere un nuovo voto dei deputati su un referendum bis prima del sì o no finale dell’aula: non senza impegnare il governo a rispettarne l’esito.
«L'offerta coraggiosa» che la premier aveva annunciato nei giorni scorsi prende forma in un tempestoso consiglio di gabinetto, alla vigilia del voto europeo di giovedì indicato dai sondaggi come un annunciato tracollo per i Tory a beneficio del Brexit Party di Nigel Farage. Poi viene illustrata nel dettaglio in un discorso a Londra che per ora non fa breccia. I punti di novità alla ricerca di un «terreno comune» con una qualche maggioranza trasversale in Parlamento sono 10.
Quelli che contano davvero sono però due: lo spiraglio sul secondo referendum, soluzione a cui la May si conferma contraria, evocando il suo desiderio di rispettare il mandato popolare del referendum del 2016, ma su cui in sostanza accetta di rimettersi alla Camera dei Comuni prima della ratifica finale; e quello sull'unione doganale, cavallo di battaglia del leader laburista Jeremy Corbyn, che introduce in effetti come soluzione «temporanea», da lasciare tuttavia in vigore fino alle prossime elezioni politiche in modo da consentire di renderla permanente (come vorrebbe Corbyn) se ci sarà un governo a guida Labour, o di cancellarla se ve ne sortirà invece uno a trazione brexiteer.
Il resto del decalogo fa riferimento a una serie di concessioni su maggiori garanzie riguardanti i legami economici post Brexit con l’Unione, nonché sul mantenimento degli standard europei di tutela dei lavoratori e dell’ambiente: altre mosse per occhieggiare alle file laburiste. Mentre come contentino ai ribelli dei banchi Tory e di quelli degli alleati della destra unionista nordirlandese del Dup restano briciole: la proclamata volontà d’evitare che il vincolo del backstop sul confine aperto fra Dublino e Belfast entri mai in vigore e l’inserimento di una norma che in caso contrario blindi legislativamente l'allineamento fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna.
«Votare no in seconda lettura vorrebbe dire votare no alla Brexit», avverte d’altronde la premier nel suo intervento, insistendo sulla necessità di onorare il risultato referendario di tre anni fa, ma pure di evitare un taglio netto. «Uscire dall’Ue con un buon accordo» di partnership rimane la via «migliore», nelle parole della May, che parla quasi spossata del percorso di questi tre anni come di «un compito enorme» e «ancor più difficile di quanto avessi previsto».
Limitandosi peraltro a confermare sulle sue dimissioni da leader Tory l’impegno a fissarne la data «dopo» il dibattito parlamentare di giugno. Nel suo partito, il dissenso resta comunque forte e anzi si estende. Con il no a questo punto certo dei falchi brexiteer sempre più orientati (non escluso qualche ministro) verso la barricata del no deal alla scadenza del 31 ottobre. Ma anche quello emergente di deputati come il moderato Simon Clarke, che
definisce via Twitter addirittura «oltraggiosi» i cedimenti della premier sull'unione doganale e sul referendum bis.
Mentre nelle opposizioni la freddezza, sintetizzata dal secco no a tamburo battente di Corbyn, sembra nutrirsi della sensazione d’avere a che fare con un’anatra sempre più zoppa a Downing Street. Salvo che non spunti un ipotetico quanto improbabile ok all’emendamento sulla rivincita referendaria - sogno della City che fa volare la sterlina - a cambiare per intero le prospettive e il significato della partita.
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