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Gran Bretagna, la Corte Suprema contro Johnson: riapre il Parlamento

Colpevole, e senza attenuanti. Non è penale, ma per Boris Johnson è come se lo fosse la sentenza con cui la Corte Suprema britannica ha dichiarato oggi illegale e nulla la sospensione del Parlamento che il primo ministro Tory avrebbe voluto prolungare fino al 14 ottobre, nel pieno della crisi sulla Brexit.

Un verdetto devastante nelle motivazioni firmato all’unanimità da 11 sommi giudici del Regno - il collegio più ampio possibile - che minaccia di mettere BoJo ancora più all’angolo. Con conseguenze imprevedibili sul temuto scenario di un divorzio senz'accordo di Londra da Bruxelles alla scadenza del 31 ottobre.

L’effetto è stato quello d’un terremoto, con l’annuncio immediato dello speaker dimissionario della Camera dei Comuni, John Bercow, ormai ai ferri corti col premier, della «ripresa» dei lavori parlamentari già domani. E la reazione del successore di Theresa May improntata ancora una volta alla sfida, con un secco 'no' alla richiesta di dimissioni salita a stretto gito dagli oppositori.

«Ho il massimo rispetto per la sentenza della Corte, ma sono in forte disaccordo. Quindi vado avanti», ha tagliato corto Johnson, spalleggiato da Donald Trump a margine dell’assemblea Onu di New York, prima di rientrare in patria, non senza rinfacciare a Westminster d’aver avuto «3 anni per dibattere la Brexit», imputargli di voler rovesciare la volontà popolare espressa nel referendum del 2016 e ribadire di puntare a far sì che il Regno lasci comunque l’Ue il 31 ottobre.

La Corte Suprema ha bocciato del resto senz'appello il governo sulla prorogation, mentre ha accolto in pieno i ricorsi presentati da attivisti anti-Brexit come l’imprenditrice Gina Miller, da deputati di tutti i partiti d’opposizione e pure da un ex premier conservatore (ma pro Remain), ossia John Major.

A leggere il dispositivo, col tono didascalico della docente di diritto, è stata la presidente lady Brenda Hale, pacata ma ferma sulla soglia dei 75 anni e del ritiro; oltre che informale nella sua maglia nera decorata con un grande spilla a forma di ragno, il cui fantomatico messaggio recondito (una citazione pungente dal romanziere Walter Scott?) è risultato essere l’unico 'mistero' in grado di scatenare congetture mediatiche.

«L'advice a Sua Maestà è stato illegale» poiché ha innescato «l'effetto di frustrare o impedire al Parlamento di svolgere le sue funzioni costituzionali senza giustificazione ragionevole», ha spiegato Hale, illustrando un verdetto che a differenza di quello dei colleghi dell’Alta Corte scozzese non s'è avventurato nell’attribuire intenzioni maligne al primo ministro, ma ha censurato severamente le conseguenze del suo atto.

Conseguenze «estreme sui fondamentali della democrazia britannica» nelle parole di lady Brenda, con richiami insistiti a valutazioni giuridiche e costituzionali, «non politiche», che tuttavia sul contesto politico incidono eccome. Prendendo di mira una sospensione che rientra sì fra le prerogative del governo, ma appare «eccezionale» ai giudici sia per la tempistica vicina alla Brexit, sia per la pretesa di un’inusuale durata monstre.

Tanto da essere decretata «illegale, mai avvenuta e priva di effetto», con conseguente via libera agli speaker di Comuni e Lord a riaprire i battenti di Westminster «senza ritardi». Ora al governo non resta che cercare una nuova strategia: forse «un recesso» più breve, in vista della Conferenza annuale Tory in calendario al termine della prossima settimana. Ma i ministri, riunitisi in queste ore, sembrano divisi sul da farsi: tirare dritto fino al 31 ottobre (con l’epilogo di un no deal che stando a Johnson la sentenza della Corte rischia di rendere ancor più probabile) o frenare.

Intanto ci sono da affrontare le opposizioni sul piede di guerra, pronte a riprendere subito il controllo dei lavori d’aula. Il leader laburista Jeremy Corbyn si è già affrettato a intimare dal congresso del suo partito (chiusosi a Brighton, dopo tante divisioni, con una ritrovata esplosione di compattezza anti-Boris) le dimissioni del premier. Dimissioni evocate pure da indipendentisti scozzesi, LibDem e altri.

Anche se l’opzione d’un voto di sfiducia al premier resta per ora solo di sfondo fra le carte d’un fronte del no più a suo agio nel tenere sotto schiaffo un governo minoritario (cercando di obbligarlo al rinvio della Brexit e delle elezioni) che non nel provare a farlo cadere. Col rischio di doversi poi inventare numeri sfuggenti su proposte alternative unitarie.

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