La Brexit infinita s'incatena a un altro rinvio, mentre Westmister continua a discutere di elezioni anticipate, ormai inevitabili, senza tuttavia trovare ancora il bandolo della matassa sul quando e sul come. La Gran Bretagna potrà lasciare l’Ue il 31 gennaio 2020, ma anche prima, secondo l'ultima proroga flessibile (o 'flextension', nel linguaggio degli eurocrati) annunciata oggi dai 27, tornati ad armarsi di pazienza offrendo di fatto a Londra l’opportunità di uscire in ogni momento nei prossimi tre mesi. Una proroga che Boris Johnson è costretto a inghiottire, pur chiedendo ai partner europei d’impegnarsi a non darne altre. E che peraltro s'accompagna all’ennesimo appello di Bruxelles al Regno, quasi un’implorazione, a decidere nel frattempo una buona volta cosa fare: se approvare l’accordo di divorzio raggiunto in extremis con il premier Tory, rimettere tutto in discussione (magari con un secondo referendum) o chissà cos'altro. L’estensione dei termini sarà formalizzata in un paio di giorni. Ma la decisione è presa. La scadenza del 31 ottobre - non più a portata di mano in barba alle promesse a raffica fatte da Johnson - è archiviata ufficialmente. E poiché l’alternativa del no deal non piace a nessuno, non resta che dilazionare ancora. Per tre mesi, secondo quanto il Parlamento britannico aveva imposto al premier di chiedere. O meglio, fino a tre mesi, come ha spiegato il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, anticipando via Twitter l’intesa. In sostanza, s'indica un’ulteriore deadline, il 31 gennaio, ma con finestre intermedie a fine novembre e fine dicembre al cui scoccare l’isola, ratifica parlamentare permettendo, potrà pure dire addio. La Francia, che sembrava pronta a minacciare il veto, e al massimo a far passare una proroga breve, alla fine si è riallineata: speranzosa se non altro che la partita a scacchi britannica sulle elezioni, passaggio a questo punto senza alternative per cercare di rompere lo stallo di Westminster, possa essere in effetti in dirittura d’arrivo. I segnali ci sono, anche se stasera il governo Johnson ha trovato per la terza volta un muro nel quorum dei due terzi su una mozione favorevole allo scioglimento della Camera dei Comuni. Il testo prevedeva di mandare i deputati a casa il 6 novembre e convocare le urne per il 12 dicembre: ma avrebbe avuto bisogno dell’appoggio del Labour di Jeremy Corbyn, incerto e diviso al suo interno. Quindi niente da fare, malgrado i toni sferzanti con cui il primo ministro è tornato a puntare il dito contro Parlamento, opposizioni e Corbyn in primis: accusati di «tergiversare», d’essere loro - non lui - i responsabili di quest’altra proroga, di saper solo rinviare, di non approvare entro fine ottobre «il nuovo grande deal raggiunto (con Bruxelles) a dispetto di chi diceva fosse impossibile», di non voler in realtà neppure «rispettare il risultato» del referendum del 2016. Intanto spunta però una strada strada diversa per il voto a dicembre. Quella d’una legge ordinaria, a maggioranza semplice, suggerita a sorpresa da altri due partiti d’opposizione, i liberaldemocratici e gli indipendentisti scozzesi dell’Snp, che dopo aver fatto campagna per mesi invocando la priorità di una rivincita referendaria per «fermare la Brexit» hanno improvvisamente cambiato idea, evidentemente persuasi di poter approfittare delle difficoltà laburiste per cercare di guadagnare voti e seggi: riconoscendo che legiferare su un referendum bis non pare praticabile in questo Parlamento e che le elezioni diventano dunque un passaggio obbligato. Voltafaccia che fa infuriare il Labour e che invece i Tory sembrano pronti a cogliere al balzo. Come conferma la disponibilità serale di BoJo a far propria in sostanza la proposta LibDem-Snp in «un breve» testo legislativo annunciato dopo lo stop alla mozione odierna: anche a costo di anticipare lo scioglimento a prima del 6 novembre e di rinunciare a un ultimo tentativo preelettorale di ratifica a Westminster del 'Boris deal'. Basta che tutto si decida in settimana.