Ultimi fuochi in Parlamento, nel Regno Unito, mentre è già scontro elettorale - sulla Brexit e non solo - in vista del voto politico anticipato fissato ieri dalla Camera dei Comuni per il 12 dicembre. A occupare il centro della scena sono inevitabilmente il premier conservatore Boris Johnson e il leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbyn, anche se non mancano fra gli alfieri dei partiti storicamente minori i pretendenti al ruolo di terzo incomodo.
La legge per la convocazione delle urne è passata oggi alla Camera dei Lord prima del Royal Assent della regina. Ma i giochi nella sostanza sono fatti. Il rompete le righe a Westminster è previsto domani, giorno in cui si compie anche l’annunciato passo d’addio dopo 10 anni dello speaker John Bercow: il Tory anticonformista protagonista d’infiniti dibattiti (e polemiche) nel ruolo di arbitro spesso interventista e sempre pittoresco nei suoi richiami al grido di «order, ordeeer!». Gli omaggi di rito a Bercow, commosso sotto gli occhi della moglie e dei figli ospiti d’onore in galleria, sono stati del resto l’unico momento che ha accomunato oggi Johnson e Corbyn nel Question Time del mercoledì. L’ultimo prima delle elezioni, segnato ormai da toni dei comizi che scatteranno ufficialmente fra pochi giorni.
Lo scontro ha anticipato la sfida delle prossime settimane: con il premier deciso a giocare la carta del faccia a faccia con un avversario preso di mira per la connotazione di sinistra radicale, ma soprattutto a sventolare la bandiera dello promessa Get Brexit done. E il compagno Jeremy - leader di un partito in maggioranza filo Remain, ma con uno zoccolo duro brexiteer potenzialmente decisivo in diversi collegi chiave - intenzionato ad allargare la polemica alle riforme economiche e alla giustizia sociale. Nel botta e risposta odierno Corbyn ha attaccato sui tagli alla sanità pubblica (Nhs) e contro le politiche di austerity e le privatizzazioni, mentre ha accusato BoJo di cercare l’asse con Donald Trump per un dopo Brexit improntato al libero scambio fondato sulla deregulation.
Il premier (che ha riportato all’ovile una decina di Tory dissidenti, ma deve fare i conti anche con qualche defezione elettorale eccellente di figure moderate come l’ex ministra Ambre Rudd) ha accusato per tutta risposta Corbyn di essere solo un uomo «di protesta», di non avere capacità di «leadership», di voler provocare «una catastrofe economica» a colpi di "nazionalizzazioni" e aumenti di tasse. E magari anche «una distruzione politica» del Paese se mai riuscirà a porsi alla testa di un governo di coalizione destinato nella narrativa johnsoniana a dividere di nuovo i britannici con un referendum bis sulla Brexit e un altro sull'indipendenza della Scozia. Il duello potrebbe riproporsi presto in una sfida tv, chiesta a gran voce dal numero uno del Labour. I sondaggi intanto continuano a premiare la parrocchia Tory, ma con forti oscillazioni che suggeriscono prudenza: si va dall’istituto Opinum, che dà il partito del premier al 40%, quello di Corbyn lontano al 24, i LibDem dell’anti-Brexit radicale Jo Swinson al 18, il Brexit Party di Nigel Farage all’11 e gli indipendentisti scozzesi dell’Snp al 4; al centro ComRes che invece accredita i conservatori al 33%, i laburisti a ruota al 29 e i LibDem al 15.
Mentre le analisi del think tank Onward indicano come potenzialmente determinante il voto del cosiddetto 'Workinngton man', l’uomo di Workington, località dell’Inghilterra profonda scelta per simbolizzare l’elettorato della working class bianca dei collegi inglesi del centro-nord. Di tradizione laburista, ma in larga maggioranza pro Leave: e sensibili agli slogan da linea dura su immigrazione e pubblica sicurezza.
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