Non è ancora stato risolto il mistero dei malori che si sono diffusi in India. Oltre 550 persone nella città di Eluru in India (nel distretto di West Godavari di Andhra Pradesh), soffrono di convulsioni, vertigini e nausea da sabato sera. Le crisi durano da 3 a 5 minuti, seguite solitamente da vomito o perdita di coscienza. I medici dell'Eluru Government Hospital, dove viene curata la maggior parte delle vittime, riferiscono che i pazienti si riprendono da queste “crisi” entro una o due ore e vengono dimessi. Una condizione che si manifesta in persone di tutte le età, uomini, donne e bambini piccoli. Mentre sabato sera sono state portate in ospedale almeno 90 persone, domenica e lunedì le cifre sono aumentate drasticamente. Solo da martedì sera il numero delle vittime è sceso. Mercoledì meno di 20 pazienti sono stati portate in ospedale, ma la maggior parte di loro non ha sofferto di convulsioni o attacchi. Il panico iniziale si è placato giovedì e meno di 20 persone adesso sono in cura o sotto osservazione.
Ma cosa ha causato la malattia?
L'All India Institute of Medical Sciences (AIIMS) di Nuova Delhi ha trovato tracce di piombo e nichel in campioni di sangue di 25 persone fra i 45 campioni inviati dal governo. Esperti di sanità pubblica e scienziati di varie agenzie sono in attesa di rapporti dettagliati di analisi sui campioni di sangue, ma il sospetto principale è sulla contaminazione da metalli pesanti dell'acqua. Gli scienziati sospettano che il pesticida o l'insetticida sia penetrato nelle condutture di acqua potabile. L'amministrazione distrettuale e i funzionari della Eluru Municipal Corporation ipotizzano anche che la contaminazione dell’acqua possa essere una conseguenza dell'uso eccessivo di igienizzanti e cloro previste dai nei programmi di prevenzione del Covid-19. Gli esperti del National Institute of Nutrition (NIN) di Hyderabad che hanno raccolto campioni di acqua, sangue e cibo da Eluru credono che si tratti di contaminazione da piombo, ma potranno confermarlo solo dopo nuove analisi dettagliate.
Nove neonati morti in 24 ore nella città di Kota: ospedale sotto accusa
Nove neonati sono morti in 24 ore al JK Lone Hospital, un ospedale pubblico della città di Kota, in Rajasthan (nel nord dell'India), lo stesso istituto in cui, un anno fa, 106 bambini, tutti di pochi giorni, persero la vita nel giro di due settimane. Cinque bambini sono morti nella notte di mercoledì scorso, gli altri quattro ieri. Secondo le dichiarazioni del direttore dell’ospedale Suresh Dulara, riportate dai media, tutte le morti sono naturali e non si possono sospettare infezioni o mancate cure, ma il ministro alla salute dello stato Raghu Sharma ha ordinato di avviare un’inchiesta. Alcuni familiari dei bambini accusano lo staff di negligenza e denunciano che quando sono arrivati all’istituto di sera non hanno trovato medici, ma solo infermieri, e di avere dovuto attendere l’indomani prima che i piccoli venissero visitati. La commissione del governo che indagò sulla strage dei neonati dello scorso dicembre ha riferito che la maggior parte dei piccoli morì per ipotermia: l’ospedale era privo sia delle culle termiche, sia della rete per la somministrazione dell’ossigeno, mentre il reparto di terapia intensiva non era stato disinfettato da mesi. Il tragico sospetto è che da allora nulla sia cambiato al GK Lone Hospital.
Le Monache buddiste "Kung fu" assistono ammalati Covid
Intanto, alcune decine di monache buddiste nepalesi note come «suore Kung fu» vivono da alcune settimane in isolamento in un villaggio himalayano a 4000 metri, nel distretto indiano di Lahaul, dove tutti gli abitanti, colpiti dal Covid-19, non erano più in grado di procurarsi cibo, perché privi di lavoro da mesi. Il sito online del quotidiano The Hindustan Times racconta la più recente impresa delle famose suore: dall’inizio della pandemia alcune centinaia di loro hanno abbandonato l'allenamento da guerriere volanti e, lasciato il monastero di Katmandu, si stanno dedicando, a piccoli gruppi, a portare aiuti ai villaggi himalayani su entrambi i versanti del confine che corre tra Nepal e India. Avvolte nei loro abiti color amaranto, le teste rasate, le "suore Kung fu» hanno affrontato camminate anche di interi giorni per portare agli abitanti di queste valli remote pacchi con aiuti concreti, alimenti, medicine, mascherine protettive, ma soprattutto, per diffondere tra loro l’informazione sull'epidemia da Covid. «Alcune di noi si sono ammalate, ma la paura non ci ha fermate» fa sapere dal villaggio indiano di Lahaul Jigme Yeshe Lhamo, che appartiene all’ordine da quando aveva tredici anni. Il coraggio di queste monache non stupisce, perché l’impegno sociale, abbinato allo studio e alla pratica dell’arte marziale è una delle caratteristiche del loro ordine, che appartiene al lignaggio Drukpa ed è l’unico, nel sistema buddista, a concedere alle donne uno status identico a quello dei monaci; già nel 2018 le «suore Kung fu» hanno ricevuto a New York il premio Game Changer Award dell’Asia Society, riconoscimento annuale che onora gruppi e individui che hanno un impatto di trasformazione in Asia.