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Stereotipi e “maschile escludente”, il vocabolario contro la violenza di genere

"Ma non piagnucolare così, sembri una femminuccia. Dai, tra poco andiamo al calcio, oppure ti devo portare a danza? Perché se sei una femminuccia devi andare a danza...".

Attimi di sgomento: da quale era glaciale - o abisso culturale - proviene questo sconcertante dialogo tra mamma e figlio? Non da un tinello popolare degli anni '60, ma da una città metropolitana del XXI secolo, mentre si attende in fila alla cassa e un bimbetto di 6 o 7 anni, in tenuta da calcetto rigorosamente azzurra, scalpita annoiato costringendo la madre a placarlo con i primi argomenti ritenuti efficaci. Appunto, la sottile minaccia sullo sfumare dell’appuntamento con lo sport preferito “da maschio” e l’esplicita allusione ad un modello comportamentale deprecabile: se piangi mostri debolezza e somigli a quell’essere inutile, la femminuccia, che usa sciogliersi in lacrime dimostrando incapacità di controllo e inconcludenza. Boys don’t cry  quindi attenzione, se fai la “femminuccia” sarai “punito” con la danza. Con buona pace delle solenni icone maschili del balletto, da Nureyev e Baryshnikov a Bolle.

Un'analisi psicosociologica troverebbe spunti a volontà, soprattutto se si scopre che a parlare è una giovane infratrentenne,  propalante ad alta voce stereotipi ancestrali, ereditati quale quota di legittima, con cui bollare in tutta leggerezza il suo stesso genere di appartenenza, senza neanche cogliere il senso profondo di quelle sferzanti, "ordinarie" parole. Una giovane figlia della generazione che dovrebbe avere ormai metabolizzato il rigetto dei pregiudizi di genere, che dovrebbe viverli come offesa personale. E invece la scena fa emergere in maniera nettissima tutti i limiti di un sistema formativo, di una comunità educante "allargata" - famiglia, scuola, istituzioni, associazioni: la società "civile" - che evidentemente non riesce ancora a toccare i giusti tasti, a spezzare le catene invisibili - e categorie ineluttabili - tramandate di generazione in generazione. Un sistema in cui i messaggi "forti", per quanto volenterosamente divulgati, non giungono efficacemente a destinazione. In cui ancora le femminucce sono "rosa" e i maschietti "celesti". E in cui l'arcobaleno è un orizzonte cromatico lontano, dalle case, dalle piazze e anche dai campi luccicanti del calcio globale (dove prevale ampiamente il colore dei soldi).

Un’agghiacciante povertà educativa che va ben oltre l’ignoranza in materie letterarie o scientifiche - o lingue straniere: queste sconosciute - e si accinge a generare i precursori di tutto ciò su cui in questi giorni accendiamo pesantemente i riflettori. Con i numeri ancora spaventosi - Sicilia in testa alla orribile classifica nazionale dei reati da Codice Rosso - di quella narrazione arcaica, fatta di sopraffazioni e annientamento femminile, che non alberga solo nell'Iran dell’estremismo islamico.

Che adolescente sarà al traguardo dell'Obiettivo 5 dell'Agenda 2030 (Parità di Genere) un bambino allevato a pane e "femminuccia"? E che uomo diventerà? Come si porrà di fronte a un mondo che si sforza sempre più di prendere le distanze dallo “squilibrio binario” di chi crede che esistano solo due generi, uno dei quali di livello inferiore?

Un’urgenza educativa s'impone, anzi un'emergenza. Un “pronto soccorso” DEI (Diversity Equity Inclusion - Diversità Equità Inclusione: fronte transnazionale sul quale s'impegnano anche i grandi management nell'attuazione delle policy aziendali) verso i giovani, i non giovani, i genitori, e probabilmente anche verso chi insegna ma dovrebbe imparare a sua volta, facendo attenzione alle metafore e alle parole, e, in proposito, ricordando come un mantra la necessità imprescindibile di una corretta declinazione di genere, ad esempio delle professioni. E non solo quelle ormai di uso comune (sarta, maestra, infermiera, cuoca) ma soprattutto quelle che - chissà perché - ancora "suonano male"  benché siano del tutto corrette, grammaticalmente e eticamente: governatrice, ministra, prefetta, questora, rettrice, sindaca, assessora, magistrata, procuratrice, notaia, carabiniera, arbitra, ingegnera, architetta, medica. E, soprattutto, “la” presidente, come ha ricordato recentemente anche l’esimio linguista prof. Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, il quale già nel 1987 firmò la prefazione del volume “Il sessismo nella lingua italiana” di Alma Sabatini.

Stride gravemente, ad un orecchio appena allenato, il contrasto verbale e concettuale nei discorsi - dilaganti  negli ultimi giorni - di chi inneggia alla parità e al rispetto e poi usa costrutti interamente declinati al maschile, in cui viene serenamente sterilizzata la specificità femminile. Esprimerla con le parole (lungi dall’essere “irrilevante” perché “conta la sostanza”, come erroneamente pensano molti uomini e purtroppo anche troppe donne) significa, invece, avere già compiuto una fondamentale operazione di riconoscimento intellettuale: una forma necessaria, che mai come in questo caso è sostanza.

Nella medesima direzione della restituzione di ruolo e valore all’identità plurale vanno, ad esempio, i codici comunicativi contemporanei sempre più diffusi, anche tra  soggetti istituzionali: tutte e tutti, studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori, ad esempio, memori dell’evergreen “signore e signori”, con l’ulteriore significativa frontiera dell’abolizione della vocale finale, sostituita da asterisco o schewa, per indicare una molteplicità non più solo “duale” dei generi. Non un “appesantimento” lessicale, ma un salvifico “alleggerimento” dalle gabbie ideologiche di un superato retaggio grammaticale: quello del  maschile “inclusivo”, anzi escludente.

E nella medesima traiettoria vanno le versioni aggiornate di strumenti intramontabili, come enciclopedie e dizionari, pronti nella loro scientificità a cogliere le nuove sensibilità che animano il tratto distintivo dell’essere umano: il linguaggio.

Parallelamente, anche l’impegno deontologico formativo della categoria giornalistica (un evento su tale argomento è stato anche promosso e organizzato nel 2019 dalla Gazzetta del Sud nel suo auditorium), viene sempre più costantemente rivolto verso un’esposizione neutra dei fatti di cronaca, che non orienti ad interpretazioni “difensive” (delitto d’onore, raptus, gelosia, “amore malato”, lei aveva la minigonna...).

 

La guerra alla violenza di genere si combatte in prima linea anche col vocabolario. A scuola, e nel tinello di casa. Lì, dove nasce la coscienza del rispetto, e dove tutto ha inizio.

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