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La mela della Meloni e altri... tipici luoghi comuni

Giorgia Meloni

Alla Fiera del Nord, o meglio alla Fiera del Sovranista, chissà quali prodotti venderanno. «Quelli italiani al cento per cento» risponderebbe subito un leghista zelante, o anche solo un ammiratore di Giorgia Meloni, che negli ultimi giorni non fa che farsi fotografare sui social sorridente con una mela in mano («Una mela italiana al giorno toglie il frutto straniero di torno», scrive la presidente di Fratelli d'Italia), oppure s'indigna per il couscous introdotto nel menù d'una mensa scolastica del Milanese, «al posto del maiale» (la notizia, semmai, sarebbe che almeno esistono ancora mense scolastiche, nell'operoso Nord, che non discriminano i bambini su base etnica...).

Volevamo dire alla Meloni che, disgraziatamente, non c'è in pratica alcun frutto, ortaggio, spezia o prodotto – soprattutto quelli più usati per confezionare «specialità tipiche italiane» – che non venga da qualche altra parte del mondo, e sia giunto qui grazie ai movimenti dei popoli, alle migrazioni, agli scambi, al moto perpetuo che anima da sempre il pianeta: pomodoro, fagioli e patate vengono dall'America, mele e pere dall'Asia, melanzana e basilico dall'India, il caffè viene dall'Etiopia (ma qualcuno dice dallo Yemen), l'arancia dalla Cina. Potremmo continuare ancora a lungo, giusto per amore di precisione. Ma, sapete, in realtà è del tutto inutile.

Perché siamo convinti che non abbia alcuna importanza identificare da dove venga un piatto o un prodotto (chissà, magari la prossima volta potremmo chiedere i documenti a un panino col kebab, o con l'hamburger, a un cocktail Moscow mule o persino a un’oliva più o meno greca): cosa è “tipico” se non qualcosa che – ce lo dice la storia della cucina, e non soltanto quella – lo è diventato in una lunghissima storia di esperimenti, contaminazioni, apporti, aggiunte, provenienze, elaborazioni?

E poi, suvvia, il punto non è che, per esempio, il couscous è a buon diritto un piatto siciliano (fanno pure un festival, a San Vito Lo Capo, nel Trapanese, dedicato al couscous, e lo chiamano «piatto della pace e dell’integrazione»), ma che si debba ragionare in questi termini di appartenenze e culture, nel mondo in cui siamo fatti al 90 per cento (parafrasando un altro esponente politico dalle uscite “ruspanti”) di... scambi.

E dunque, cari sovranisti alla vaccinara (e non vogliamo parlare pure dei piatti “poveri” diventati pietanze da chef stellati? Non c'è pure la lotta di classe, in cucina?), il punto non è da dove veniamo e quanto “stranieri” siamo, ma cosa siamo capaci di fare, cosa possiamo essere, cosa siamo stando assieme.

Come si fa in cucina. In alcune cucine e forni di Riace, per esempio.

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