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Gli scenari post-crisi: per il governo "giallo-rosso" strada in salita

Palazzo Chigi

Una settimana di tempo per costruire ciò che, ancora in queste ore, a diversi esponenti M5S fa strabuzzare gli occhi: un’alleanza giallo-rossa che releghi, per anni, Matteo Salvini all’opposizione. Con le dimissioni di Giuseppe Conte parte il percorso per un accordo M5S-Pd.

E’ un percorso in salita che al momento vede scettici i due leader, Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, per motivi diversi. Il primo, in chiave anti-renziana, propenderebbe per un voto al più presto. Il secondo teme che un’eventuale accordo con i Dem lo releghi a un ruolo di comprimario facendo schizzare, allo stesso tempo, le quotazioni della corrente ortodossa. E poi c'è il nodo Matteo Renzi: «lui ha il controllo di buona parte dei senatori, un accordo con il Pd non può prescindere da lui», è il timore che si respira nel Movimento.

Il puzzle è complicato e basta vedere i volti piuttosto stravolti che si aggirano a Palazzo Madama mentre tramonta l’era giallo-verde. E il ritiro della mozione di sfiducia da parte della Lega in serata complica le cose. L’apertura di Salvini, inoltre, mette in non poche difficoltà il Movimento rischiando di lasciare il cerino nelle mani dei pentastellati. Ma la mossa di Salvini è destinata a naufragare. I gruppi parlamentari M5S sono in gran parte (più alla Camera che al Senato) contrari ad un ritorno con la Lega sposando in toto la linea di Giuseppe Conte: il rapporto di fiducia ormai è rotto. E ai vertici del M5S sarebbe arrivata la richiesta di gestire la crisi assieme alla rappresentanza parlamentare proprio per forzare sul percorso che porterebbe ad un accordo con il Pd.

Ma i dubbi nel Movimento restano e, non a caso, più di un esponente si interrogava nel pomeriggio su quale fosse il contraccolpo elettorale più dannoso per i pentastellati: se un accordo con il Pd o un ritorno con la Lega. Con una strada, ancora aperta: quella di un governo istituzionale, deciso dal presidente Sergio Mattarella, che porti l’Italia al voto nella primavera del 2020. Già, perché al Senato che si voti in autunno in pochi ci credono. Il resto però, è avvolto nella nebbia. A cominciare dal ruolo di Conte. L’addio dell’"avvocato del popolo" è una delle condizioni che, al momento, avrebbe posto Zingaretti solo per sedersi al tavolo.

Dall’altra parte è impossibile che il M5S accetti un premier di area Pd. Rumors parlamentari danno non a caso in salita le quotazioni di Raffaele Cantone ma anche il profilo dell’ex presidente dell’Anac non è certo da considerare vicino al Movimento. E poi c'è il consenso popolare di Conte, sui quali i vertici 5 Stelle vogliono continuare a contare. Ma un Conte-bis ha anche un ulteriore ostacolo: il premier stesso. Chi lo conosce osserva che non sarebbe facile far tornare Conte sui suoi passi inducendolo a rimangiarsi quanto affermato nei mesi scorsi: che dopo la sua esperienza alla presidenza del Consiglio avrebbe tolto il disturbo. E anche fonti di Palazzo Chigi, pur non escludendo un Conte-bis con uno schema diverso da quello giallo-verde, definiscono "assolutamente non scontato" che il professore di diritto accetti l’offerta. Certo, ben diverso sarebbe se una simile proposta abbia il chiaro - sebbene informale - placet del Colle, anche perché i rapporti tra Conte e Mattarella si sono cementati nei mesi.

Ma la verità è che si naviga a vista. E a dimostrarlo sono i conciliabili che si succedono a Palazzo Madama. Come quello, concitato, tra Giancarlo Giorgetti, Stefano Buffagni e Gianluigi Paragone, i due pontieri filo-leghisti del M5S. Ad uscirne a testa alta, comunque, è Conte. E il suo discorso in Aula, più che un testamento, è sembrato una sorta di manifesto politico di una personalità che difficilmente uscirà dai radar. Difficile, ma non escluso totalmente, che Conte vada a fare il commissario europeo. Ma sul futuro in politica, o nelle istituzioni, nel premier oggi al Senato ci scommettevano più o meno tutti.

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