Trenta giorni dopo l’apertura della crisi, giura il nuovo governo guidato da Giuseppe Conte. E volta subito pagina. Lo fa con i volti e i toni dei nuovi ministri di Pd e Leu che affiancano una delegazione M5s molto rinnovata. Ma soprattutto lo fa con i primi atti in Consiglio dei ministri. Il premier raccomanda ai suoi ministri «leale collaborazione», per archiviare la stagione gialloverde dei «conflitti» e delle "sgrammaticature istituzionali». Luigi Di Maio e Dario Franceschini promettono, a nome delle rispettive «delegazioni», che ci si parlerà di più e si concorderanno le singole misure.
Poi tutti insieme, premier e ministri, danno il primo "schiaffo" politico a Matteo Salvini, con la decisione di impugnare una legge regionale del Friuli Venezia Giulia, regione a guida leghista, per alcune norme «discriminanti» verso i migranti. Alle dieci del mattino, con il carico di sorrisi ed emozioni di rito, i ventuno ministri del nuovo governo giurano nelle mani del capo dello Stato. I Cinque stelle si mettono in posa per una istituzionale foto di gruppo e il Pd risponde con un selfie scattato da Franceschini.
Nicola Zingaretti assiste alla diretta tv dal suo ufficio in Regione, avendo delegato a Franceschini la regia della squadra di governo. Conte fa l’occhiolino a Di Maio, poi gli stringe le mani con calore: una crisi irrituale e durissima è alle spalle, Salvini è tra i monti di Pinzolo promettendo la rivincita alle prossime elezioni. Ma l’obiettivo dei giallorossi è eleggere il prossimo presidente della Repubblica e intanto varare una legge elettorale proporzionale che cancelli i sogni del leader leghista di «pieni poteri». A Palazzo Chigi, dopo una singolare cerimonia in cui Conte eredita da se stesso la «campanella» che apre i Cdm e saluta frettoloso il leghista Giancarlo Giorgetti, il primo Consiglio dei ministri dura oltre un’ora.
Conte, ora più a suo agio nel ruolo di premier, regala battute per sciogliere le emozioni dei tanti debuttanti. Poi esordisce con un discorso in cui indica la discontinuità che vuole. Basta conflitti, basta scavalcarsi e non parlarsi: dialogate tra voi e parlate con la presidenza, sobri nelle parole e operosi nelle azioni, raccomanda. Ora si lavorerà come una vera coalizione. E come in ogni coalizione che si rispetti, prendono la parola in Cdm i capi delegazione di M5s, Pd e Leu.
Di Maio e Franceschini concordano che d’ora in poi le leggi non saranno degli uni o degli altri ma condivise. Finita la stagione «dei bracci di ferro continui», promette il Dem, «faremo sintesi e non competizione». Lavoriamo bene e superiamo le divisioni, dice Roberto Speranza, unico ministro di Leu: questo è il progetto per l’Italia dei prossimi anni. In Consiglio dei ministri debutta da sottosegretario Riccardo Fraccaro, che promette una nuova stagione di riforme. E viene viene formalizzata l’indicazione di Paolo Gentiloni per la nuova commissione Ue.
Plaude Ursula Von Der Leyen e si compiace per un governo più europeista Angela Merkel. Ben altra accoglienza avrebbe avuto un nome leghista (così doveva finire, un mese fa). A Gentiloni dovrebbe andare la delega agli Affari economici, con il delicato incarico di interloquire con Roma sulla difficile legge di bilancio che dovrà essere varata a ottobre. Subito, intanto, l’esecutivo si mette al lavoro. Viene esercitato il Golden Power su quattro operazioni di 5G di Tim, Vodafone, Fastweb e Linkem. E viene impugnata una legge del Friuli Venezia Giulia che viola diverse competenze statali, mette a rischio i livelli essenziali sanitari e soprattutto "discrimina» i migranti.
Era un atto quasi dovuto, spiega il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: il lavoro preparatorio era stato avviato dal precedente governo e i termini per impugnare scadevano domani. Ma acquista subito il sapore di una sfida alle politiche salviniane. Lunedì si vota alla Camera la fiducia al nuovo governo. Martedì toccherà al Senato. Il leader leghista, che si appella a un crocifisso per salvare l’Italia sarà in piazza davanti a Montecitorio, dove è in programma una manifestazione indetta da Giorgia Meloni. I governatori leghisti del Nord Alberto Cirio e Attilio Fontana promettono che faranno asse contro un governo che ha dentro tanti ministri del Sud. E qualche malumore trapelano già tra le fila M5s: Gianluigi Paragone annuncia che non voterà la fiducia, Andrea Colletti definisce un «errore» la scelta di Gentiloni, l’eurodeputato lamenta l’esito del negoziato sui ministri. Ma il governo è nato, si volta pagina.
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