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Sulle riforme non si scherza. Ci giochiamo davvero tutto

Draghi e il Paese, Salvini e Meloni. E Letta

Forse ci siamo persi qualcosa. O se l’è persa Matteo Salvini, probabilmente indaffarato a recuperare qui e là i voti che, di sotto il naso, gli sta portando via – a destra – Giorgia Meloni, che già si sogna a Palazzo Chigi.
Noi e nove decimi degli italiani abbiamo creduto di capire che – caduto Conte, fatto fuori da Renzi – il Capo dello Stato abbia “chiamato” Mario Draghi per gestire, dall’alto delle sue riconosciute competenze, in piena era pandemica e con i fondi europei da ottenere e indirizzare, la ripartenza del Paese. Draghi scomodato e tirato dentro non per occuparsi di contagi e triage, di terapie intensive e vaccini, ma della materia sua. Draghi coinvolto perché, appunto, possa occuparsi di economia, dei soldini chiamati euro – col bel nome e cognome dell’ex presidente Bce stampigliato sulle banconote, poche, che ogni italiano ha nel portafogli –, di imprese, di Meridione (si spera), e di finanze e infrastrutture, che dovrebbero andare insieme. Tutto questo con l’appoggio di Bruxelles, la seconda casa dell’attuale premier, dov’è amato quasi più di santa Gudula, patrona del Belgio e della sua capitale. Certo, Draghi sta un po’ meno simpatico ai falchi tedeschi, per via di quel quantitative easing che ha giocato soprattutto in chiave italiana, cosa – se non ricordiamo male – sfuggita, dalle nostre parti, soltanto a Luigi Di Maio, poi convertitosi pur di non tornare alle urne, e riconfermato alla Farnesina. Ma tedeschi “cattivi” a parte, e la Merkel non è tra questi, è un fatto che il nostro presidente del Consiglio sia un’icona anche fuori delle mura nazionali.
Ebbene, i fondi del Recovery sono sub condicione: passano per l’evidenza delle riforme italiane, che verranno soppesate, radiografate, dissezionate dai vertici dell’eurogoverno. Il Piano di ripresa e resilienza dovrà apparire ben argomentato, credibile e di sicura efficacia. Conteranno idee, numeri, e conterà… il messaggero, chi ci mette la faccia, la propria storia, i propri successi. Internazionali, ça va sans dire. Sergio Mattarella ha capito tutto e, in un momento cruciale e insidiosissimo per la Repubblica, ha scelto a chi far tirare il calcio di rigore. Rigore, appunto: quel che serve agli italiani per ripartire.
Riforme: dal fisco alla pubblica amministrazione, dalla giustizia a nuove più snelle regole per chi fa impresa, eccetera eccetera.
E allora: ha senso affermare che non dev’esser questo, frase di Salvini, il governo delle riforme? Ha senso, pur d’andare al voto (#dopogliitaliani), mettere tutto a rischio?
È proprio questo governo, invece, che può realizzare – nei limiti dei rallentamenti cui lo obbligherà la cattiva politica – quella rivoluzione che gli italiani, tutti, attendono da anni. Perché il Paese si liberi di incrostazioni e ragnatele. Troppe.
Le sortite di Salvini, con mascherina tricolore, non bastano a proteggerlo dall’avanzata a destra della Meloni, non entrata – furbescamente – nel governo, e stanno sempre più irritando l’eminenza grigia della Lega, Giancarlo Giorgetti, adesso ministro dello Sviluppo, e Luca Zaia, governatore veneto, che in molti vorrebbero alla guida del Carroccio. La modificazione genetica “in senso nazionale” del partito di Bossi non sta funzionando come Salvini sperava, e la sua leadership vacilla. La nuova Lega, è nostra opinione, sposterà nei fatti la barra più al centro, con l’attenzione rivolta soprattutto al Nord.
Di questo – più che di Salvini, il quale comunque ha poi ribadito a Draghi, rammendando alla bell’e meglio, la sua granitica fedeltà – il Pd di Enrico Letta dovrebbe preoccuparsi. Il centrosinistra ha bisogno di contenuti riconoscibili, di rifondare un’identità in cui soprattutto il mondo del lavoro, il nuovo mondo del lavoro, possa riconoscersi. È necessario – giusto un “esempio”, restando in tema – riflettere, e presto, sulla flessibilità, ovvero sugli insindacabili pro che genera a breve termine e sui possibili contro nel lungo periodo, riflettere quindi sulla compressione dei salari ma pure sui costi sostenuti dalle imprese, analizzare vizi privati e pubbliche virtù delle élite economiche, e la loro – spesso cattiva – influenza sul mercato dei capitali. E ancora e ancora.
I contenuti, per quanto in quest’epoca si tenda a negarlo, sono valori. Quelli che innanzi alle cose ci fanno diversi.

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