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La morte di Berlusconi: il Cavaliere, specchio esemplare della Seconda Repubblica

Uno e centomila. Imprenditore e poi politico, Silvio Berlusconi ha incarnato – con incredibili capacità mimetiche, calibrate a immagine e somiglianza d’una larga parte della “gente comune” – un modo spregiudicato, ma insieme accomodante ed ecumenico, d’essere italiano

Uno e centomila. Imprenditore e poi politico, Silvio Berlusconi ha incarnato – con incredibili capacità mimetiche, calibrate a immagine e somiglianza d’una larga parte della “gente comune” – un modo spregiudicato, ma insieme accomodante ed ecumenico, d’essere italiano.

Tutto comincia ben prima del 1994, anno della “discesa in campo” del Cavaliere – quando, tra le macerie di Tangentopoli, finita la Prima Repubblica, deciderà di entrare in politica «per salvare il Paese dai comunisti» –. Berlusconi, noto a Milano fin dagli anni Settanta per aver messo in piedi un impero immobiliare, e che già alimenta intorno a sé – enfatizzandolo fino all’inverosimile – il mito dell’uomo che si è fatto da solo, diventa con Fininvest il re delle televisioni private, con l’aiuto (alla luce del sole) fornitogli dall’amico personale e testimone di nozze Bettino Craxi.

Il Cavaliere crea nuovi format, roba mai vista prima: la tv commerciale s’insinua, e nemmeno così tanto lentamente, nelle case degli italiani. Il berlusconismo è agli albori: può esserci per tutti un modo diverso di vivere – più liberi da “sensi di colpa”, più leggeri, più guasconi se necessario –. Figlie esemplari di quei tempi, le veline sono donne – l’indicazione è chiara – la cui identità è ridotta all’apparenza: sicché, tra la dilagante pubblicità, è lecito che tutto si trasformi in merce. E nella “Milano da bere”, metafora azzeccata per l’intero Paese in quegli anni lì, i “vizi” possono essere sbandierati come le “virtù”.

In molti rimangono ipnotizzati e sedotti; al Berlusconi del ’94 basterà vendere agli italiani l’idea che, se è stato così bravo come imprenditore, perché mai dovrebbe fallire se lo sceglieranno per guidare il Paese? Da qui nasce il partito-azienda. E vengono sovvertite abitudini e regole della vecchia politica: Berlusconi, carismatico affabulatore, è campione – e lo sa bene – di fiction a 360 gradi, di populismo (in tv e non solo).

La sua “proposta” è chiara, poco importa se imbellettata con promesse di mirabilia o con “contratti” firmati davanti alla nazione: la “proposta” è lui stesso, Silvio Berlusconi, che si offre quasi come essenza mistica agli elettori. È l’identificazione dell’Uno con Tutti, dei molti che vorranno credergli con l’Uno. Il Cavaliere non promette di rappresentare i cittadini: di più, lui è loro. Non offre una rappresentanza “a tempo” ma una fedele e perenne rappresentazione. Berlusconi inventa così il marketing politico, vuol costruire un rapporto diretto col cittadino, trasforma – di fatto – l’elettore in consumatore. Titanismo e populismo, quindi: Lega, M5S e – con i suoi ardori sovranisti – FdI sono solo gli eredi. Con i distinguo d’apparente levità, non a caso, che il fenomeno ha alle nostre latitudini.

Berlusconi presidente del Consiglio, presidente del Milan, il presidente-operaio, il presidente per antonomasia. Berlusconi che riesce a convincere milioni di italiani che la difesa dei suoi interessi privati, spesso in sedi giudiziarie, non c’entra col Paese. Una trentina i processi, alcuni surreali, tra mille teoremi e alcune verità: gli italiani conoscono le olgettine del “bunga bunga”, congetturano sulle presunte collusioni mafiose del leader forzista, si schierano a favore del “capo” o contro il “caimano”. Alla fine, in mezzo a proscioglimenti, assoluzioni e criticatissime prescrizioni, una condanna definitiva a 4 anni per frode fiscale, che gli è costata – per un po’ – lo scranno al Senato.

Il Cavaliere ha mostrato agli italiani come il privato possa manipolare il pubblico e si possa provare a rimanere indenni: “la nipote di Mubarak” ne è un esempio. Non è importante la realtà ma come viene “raccontata”: l’espediente che contraddistingue la destra inventata da Berlusconi – tra una visita di Gheddafi e una vacanza con Putin – sta nel miraggio “compensatorio” di un benessere e di una felicità raggiungibili, purché siano neutralizzati i pericoli (si chiamino comunisti, giustizialisti, giornalisti...).

Il proliferare di nemici, l’accentuazione di una logica d’antagonismo permanente – postura che ora appartiene alla cultura destrorsa – ha spinto Berlusconi sulla via del bipolarismo. Aver remato contro partitelli e cespugli è stata – in sé – una cosa utile e condivisibile, che peraltro si situa nel solco delle grandi democrazie occidentali. Ma, soprattutto, ha contribuito a una svolta utile alla destra italiana. Più attrezzata per intercettare la percezione “postmoderna” della cronica precarietà del reale e dunque avvantaggiata per essere egemone se sono sostanzialmente due i blocchi che si contendono la guida del Paese.

Con Berlusconi, nel bene e nel male, se ne va un pezzo pesante di Storia italiana. E con lui muore, non v’è dubbio, la Seconda Repubblica. Che voleva essere, nelle intenzioni, di gran lunga migliore della prima.

 

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