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Sanremo Cover, l'emozione di Angelina Mango travolge l'Ariston. Ma non basta...

Ti riconcilia con un mare di cose un'interpretazione così. Ti fa far pace con la mancanza e allo stesso tempo evoca la presenza, ti scava la memoria, solca i sentimenti, ti tira dentro e poi ti scaraventa in ogni altrove. Nella scelta di Angelina Mango di portare all'Ariston il suo stesso cognome c'è assai di più che la furbizia di chi intende ipotecare la vittoria. C'è il sangue. C'è una figlia, che nelle parole e nella musica del suo papà ha trovato un testamento e l'ha tradotto in una dedica. Ieri a Sanremo, per la serata delle Cover, "La Rondine" di Pino spinta dall'aria calda dell'orchestra è diventata un messaggio intenso e struggente come pochi, legato al filo sottile dell'assenza.
Una ragazza canta, un ragazzo sogna. Prende la mano di una generazione fa, si lascia accompagnare, anche anticipare da chi buona parte della strada già l'ha percorsa ed è professore e maestro. Ma poi conclude lui (bravo, bravissimo Alfa!).
I sogni quelli d'oro, "Sweet dreams" da accademia delle donne. Annalisa (con La Rappresentante di Lista in stato di assoluta grazia), capofila della quota che si balla (ma il teatro si è alzato anche coi Ricchi e Poveri, i The Kolors, i BNRK44, l'Amoroso... Fiorella!).

Che bella che è la tradizione dell'innovazione. Del passaggio, dello scambio. Quel modo dell'arte (in un mondo troppo di parte) di condividere il genio, di prendere in prestito e restituire senza copiare e senza tradire, di aggiungere visione senza togliere l'intenzione.

Il venerdì santo di Sanremo è un po' il festival della resurrezione. Di pezzi dal passato, di robe belle già sentite, di versioni nuove, riarrangiate.

Che siano essenziali come Loredana Bertè, che ha tenuto l'appeal rock e si è messa a disposizione di una canzone che non aveva bisogno d'altro, senza condimento, Tenco (arrangiato da Fossati) era già portata principale. O Diodato, che l'abbiamo sentito portarsi l'amore su fino alle sue note, portarci dentro la Genova di Faber, con un riff enigmatico e trascinante. Irama da ovazione,
la solita potenza de Il Volo, il collettivo made in Napoli di Geolier, l'omaggio ad Ennio Morricone del made in Sicily Dargen D'Amico.

È "un evento questo venerdì", disse in apertura Amadeus. E disse il vero, perchè di lì a poco sarebbe cominciato lo spettacolo. Medley di ogni genere, scelte (incomprensibilente) autoreferenziali, scelte ruffiane, scelte di continuità o prossimità, celebrazioni, intimità, caciara, trash, raffinatezza, lingue e linguaggi. Centosettantadue artisti (tra cantanti, musicisti e ballerini), il via vai frenetico sul palco, gli strumenti che si avvicendano, i tecnici, le luci, il sapore, lo stupore, il colore. Che poi c'è quel valore aggiunto del fatto che se conosci tutte le parole (e le farcisci di ricordi, e ci vedi dentro le immagini di certi momenti) come fai a non cantare?
Cocciante, Nannini, Vecchioni. Toto Cutugno celebrato da Ghali, l'immenso Lucio Dalla che rientra in teatro grazie al colpo di Mahmood. Storia della musica italiana e ultrasuoni internazionali. Skin coi Santi Francesi ha proiettato il popolo popolare che stava comodo a casa, magari, sul divano in una dimensione soprannaturale. Come una signora del suono che tutto può.
I superospiti del Festival ormai sono soprattutto lì, il venerdì.

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