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L'inclusione e il "tranello": ecco le parole giuste per non "normalizzare" la diversità

Il linguaggio "ampio" e le nuove frontiere della sensibilità: all'Università di Messina l'intenso dibattito con la sociolinguista Vera Gheno, che ha aperto l'inserto Noi Magazine

Inclusivo, anzi no. C’è un sottile tranello lessicale - concettuale, ma non per questo meno “concreto” - non dietro, ma “dentro” una parola che, nell’accezione del linguaggio parlato, ha ormai acquisito una diffusa aura di positività: “inclusivo” ha assunto il significato comune di accogliente, “aperto” a ciò che è diverso al fine di “comprenderlo”, secondo l’etimologia del termine. Ed è qui che si rischia di cadere nella trappola capace di ribaltare del tutto le nobili intenzioni di partenza. Ecco che l’“inclusione”, con l’ideale annullamento delle differenze, finisce con l’essere non un’“accoglienza” ma un inglobamento del diverso in una - presunta - normalità maggioritaria, sterilizzando le differenze invece di dar loro spazio e valorizzarne la produttività.

È sul terreno linguistico - quello sul quale si fonda la specialità stessa dell’essere umano - che si annida questo inciampo, insidioso poiché evidente solo a chi per le parole ha dimestichezza, se non puro amore. Ma lo stesso terreno offre anche un saldo appoggio, un potente antidoto ad ogni velenosa discriminazione che prima di essere nelle azioni è nei pensieri, e nelle parole che li esternano.

L'antidoto al veleno delle discriminazioni

L’“antidoto” si chiama linguaggio “ampio” e non è un voler sostituire le espressioni già in uso - la lingua si evolve per addizione e non per sottrazione - ma un incrementarle di pari passo con l’ampliamento delle realtà da rappresentare. Che proprio grazie alla denominazione “esistono”, non solo in chi le porta addosso spesso silenziosamente, ma anche nella percezione generalizzata di chi non vivendole non ne ha sufficiente consapevolezza.

Ad approfondire il tema, sempre più urgente alla luce di una sensibilità contemporanea che impone un cambio di prospettiva, è stata la sociolinguista Vera Gheno, ospite nei giorni scorsi dell’Ateneo di Messina, al Dipartimento di Civiltà antiche e moderne, nell’ambito del programma Grandi Voci a Unime, ideato dal prof. Fabio Rossi, ordinario di Linguistica italiana, e anch’egli convinto assertore della valenza pacificatrice di un corretto uso delle parole, quale strumento primario contro ogni discriminazione sociale. Appassionata anche la sua introduzione di un’intellettuale come Gheno, ricercatrice all’Ateneo di Firenze e traduttrice dall’ungherese, il cui percorso professionale, tra linguistica e comunicazione digitale, è scandito da una precisa etica dell’equilibrio nelle relazioni interpersonali, chiaramente emergente dai titoli delle sue pubblicazioni: da “Galateo della comunicazione” (edito per la collana “Italiano di oggi” diretta dallo stesso Rossi) a “Parole contro la paura”, da “Chiamami così. Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo” a “Parole d’altro genere”, l’ultimo lavoro che ha messo insieme 42 voci letterarie di donne, dopo una lunga ricerca al di fuori delle compilazioni “ufficiali”, pervase da latente misoginia.

Gheno: togliere le parole dalle teche

Un percorso non semplice - da lei stessa narrato con slancio e ironia alla composita e attenta platea studentesca presente - di costruzione di un’identità personale e culturale, partito da una generalizzata declinazione al maschile singolare, come statuito sin dalle antologie scolastiche, e proseguito con decisione contro le discriminazioni di ogni genere e natura, per scuotere il “benaltrismo” di chi pensa che, tanto, sono solo parole, e che una vale l’altra e che i veri problemi sono ben diversi. E invece no, come dimostrato dalla sofferta testimonianza, riportata da Gheno, della giornalista che intervistandola le ha rivelato la propria faticosa ricerca dell’io, realizzando di essere non binaria solo quando, dopo oltre 50 anni di disagio interiore, ha potuto trovare - e non per un mero bisogno tassonomico, di “classificazione” - le parole contemporanee per definire una condizione che, a prescindere dai caratteri fisici, non si riconosceva nell’identità femminile, ma neanche in quella maschile. «Per raccontare la diversità bisogna togliere le parole dalle teche», dai musei di una «società normocentrica e abilista», avverte subito Gheno, scandendo il suo intenso incontro con innumerevoli citazioni. Prima fra tutte, e ricorrente, quella legata ai pensieri di Fabrizio Acanfora, teorico-pratico della neurodiversità spiegata al grande pubblico, finalmente, da uno che la vive, da persona con sindrome di Asperger diagnosticata tardivamente, a fronte di dotte dissertazioni prevalentemente condotte da chi non ha esperienza personale di ciò di cui parla. E proprio Acanfora è tra i più convinti assertori del superamento del concetto di inclusione (una sorta di “concessione” dell’asserita “maggioranza” sociale verso le “minoranze”) a favore di una “convivenza delle differenze”, tenendo conto che, come ha fatto notare Gheno, se andiamo a scartare man mano i gruppi caratterizzati da questa o quella “diversità”, alla fine sarà la “normalità” la vera minoranza.

Il genere, l'autismo e tutte le altre "discriminanti"

E se l’autismo è una delle condizioni patologiche maggiormente emblematiche della “diversità” che spaventa e divide, lungo è l’elenco delle fonti di discriminazione, associabili all’etnia, alla religione, alla forma fisica, alla condizione economica e persino all’età, «in una società “ageista”, dove gli anziani e i giovani sembrano incapaci di produrre sapere» e dove, ad esempio, una donna, giovane e autistica, come Greta Thunberg, riassume alcune tra le più diffuse fonti di discriminazione. Ai vertici dell’indesiderabilità, chiaramente, il genere (femminile) e l’orientamento sessuale (non etero), «in una società che esprime maschilismo in tutto, e in cui le donne sono ospiti», dall’urbanistica alla medicina, dall’arredo dei mezzi pubblici alle logiche stereotipate che costruiscono ovunque barriere invisibili ma insormontabili.

Linguaggio "ampio": esempi pratici

Il cambiamento? Certamente non immediato, arduo ma non per questo impossibile: «Occorrono azioni, gesti, anche piccoli - auspica Gheno - nella consapevolezza che portano sempre a qualcosa». E quindi, il linguaggio “ampio” diventa il segno espressivo di un pensiero rispettoso delle diversità, anzi delle altre normalità, attraverso la semplice applicazione di ciò che già la lingua italiana offre: la declinazione femminile delle professioni - presente in tutti i vocabolari, corretta, doverosa, ormai sempre più diffusa, iniziando a suonare “bene”; l’abbandono del sistematico maschile sovraesteso (i ragazzi, i cittadini, per definire un gruppo misto, una regola perfettamente “inclusiva”, infatti neutralizza la concordanza al femminile a vantaggio del maschile: «Perché allora non usare il femminile sovraesteso?» provoca Gheno); l’appellare le diversità per ciò che sono, senza “normalizzarle”, abbandonando forme come diversamente abile, non vedente, non udente, a favore di persona con disabilità, cieca, sorda; il ricorrere a forme neutrali o collettive (il gruppo, la classe, la rappresentanza) per ricomprendere anche chi non si riconosce in un’identità binaria, senza stigmatizzare il ricorso - seppur ortograficamente controverso - a caratteri come asterisco o schwa, per rimarcare ancora di più tale intenzione (tutt*).

Rossi: il cambiamento inizia dalle parole, anche a Messina...

"Abbiamo pensato con Grandi Voci a Unime - spiega Rossi - di uscire da temi solo linguistici per entrare negli aspetti sociali, far vedere come la lingua è sempre riflesso di mentalità e usi sociali. E nessuno meglio di Vera Gheno è in grado di mostrare agganci tra tematiche di genere, dibattiti su inclusione e diversità, su come parlarne e come rappresentarla proprio perchè ha trattato i temi in conferenze e libri. Molto significativo inoltre credo sia dare rilievo a temi come il linguaggio di genere e ampio soprattutto in una città come Messina, e in un ateneo come il nostro, in cui da un lato c'è grande attenzione a questi aspetti, argomento anche ad esempio di un evento formativo giornalistico, dall'altro però c'è molto lavoro da fare. Abbiamo due candidati e una candidata nell'elezione al rettorato, e forse la meno rappresentata è proprio la cadidata rettrice, quando è un motivo di vanto che in una città e in un ateneo "maschilista" come questo ci sia finalmente spazio per una candidata donna: l'auspicio è che le cose possano cambiare, e le cose spesso cambiano proprio a partire dalle parole".

"Noi e le Parole" e il ruolo della scuola

Torna quindi con questa preziosa materia, il linguaggio del rispetto, in apertura dell'edizione del 26 ottobre dell'inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud, la nostra rubrica Noi e le Parole che, in collaborazione con il portale DiCo Unime ideato dal prof. Rossi con il prof. Fabio Ruggiano, ci accompagnerà alla scoperta della lingua italiana, anche come strumento che “avvicina”. E in questo percorso globale di consapevolezza, come in molti altri, la scuola ha un ruolo insostituibile. È l’ambiente d’elezione in cui matura pian piano la percezione di se stessi e degli altri, e vengono forniti gli strumenti per consolidare e affermare - anche a parole, identificandola innanzitutto - la propria personalità. E perché ciò avvenga serenamente, la scuola è chiamata a proporre una narrazione equilibrata, plurale, né maschile, né femminile, né - ormai, riduttivamente - “binaria”, offrendo davvero alle giovani generazioni conoscenza e parole per dire tutto ciò che sono, che sentono di essere o che vogliono diventare, con la libertà di farlo. È il modo migliore per costruire la reale convivenza delle differenze, dove discriminazioni, violenza e sopraffazione della diversità non possono albergare. Perché diversità è “normalità”.

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