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Meloni tra le manovre in casa e le sciagurate guerre là fuori

Il nazionale, il sovranazionale, il privato

Ha detto, Meloni, che è un lavoro di drafting. Ritocca ritocca – «ma nulla di sostanziale», per carità – e arriverà finalmente la legge di bilancio similperfetta, l’unica ora possibile visto che il governo ha a disposizione un soldino e qualcosa, poco altro. E la premier deve, per di più, accontentare gli alleati, lanciar loro qualche boccone da vendere alla platea che li vota e quindi pretende, almeno, qualcosa in cui riconoscersi. Partner sfacciati che, tentando di scavalcarla a destra o… in Europa, accerchiano Meloni e si cimentano in ogni insidioso istante per eroderne il consenso che s’è conquistata in anni di facile e abile opposizione. Sì, quando fra governi traballanti di disparato colore e governi similtecnici, poteva azzardare in mille salse i suoi nient’affatto miti propositi – tanto non c’è, mentre “si spara” in astratto e Palazzo Chigi è un miraggio, mai prova e quindi rischio d’un contrario –.

Il testo della pluricangiante manovra, la nuova bozza della nuova bozza della bozza, sta per approdare in Parlamento. Con “Quota 104” rimangiata, con la cedolare secca rivista e riplasmata sul secondo e terzo e quarto affitto, con i rimaneggiamenti sul Fisco e sulla Sanità, con la serie di modifiche implorate (imposte) dalla Lega e pure da FI, lo stesso partito che è “vicino” a Mediaset, a “Striscia”, e ricorda tanto a Meloni le manovre non eleganti – messe in vetrina – di Giambruno Andrea conduttore e aspirante seduttore.

Tutto questo mentre la presidente del Consiglio si ritrova con la peggiore crisi mediorientale di sempre da quando esiste Israele, guerra su guerra, con Putin alla disperazione che deve sposare Hamas e Iran pur di rimediare qualche straccio di sponsor nel globo terracqueo. Ecco che l’Italia, allora, si astiene all’Onu perché non c’è esplicita condanna di Hamas nella risoluzione, ecco che Meloni si ritrova – nel solco di Tajani – a dover ripetere che occorre rafforzare l’Anp (i “palestinesi buoni”) per indebolire i più fondamentalisti fra gli islamici, quei maledetti «terroristi» cui Tel Aviv – pure – sta “rispondendo” con una ferocia che indigna almeno la metà degli italiani.

Il nostro Paese, si sa, è seduto da ben prima di adesso sulle posizioni degli americani, ma fa senso – ammettiamolo – riscoprirlo ogni volta. E tanto più è gravoso e si soffre lo stupore quanto più appare acritico il “modo”, della premier, di aderire alla postura, stell-e-strisciante solo rispetto ai propri interessi, di Washington D.C.: cento per cento pro Ucraina, cento per cento pro Israele.

Percentuali non facilmente difendibili in Italia. Attenzione, giusto per evitare fraintendimenti: l’Ucraina, Paese sovrano, è stata oggetto di aggressione, e gli israeliani, dentro le mura “di casa”, hanno subìto un attacco spietato, sicché è normale che qualsiasi occidentale che sappia di libertà e autodeterminazione difenda le ragioni offese di Kiev e Tel Aviv, ma è pur vero che l’espansionismo Usa (a monte della guerra numero uno) e la “sistematica” noncuranza – eufemismo – nei confronti dei palestinesi e dei loro diritti (a monte della guerra numero due) hanno preparato il terreno, in anni e anni, a tanto orrore. Ciò non toglie un'oncia di peccato a Putin e ai miliziani di Hamas, campioni di sanguinaria brutalità, ma non rende gli altri – di là di questa e quest’altra sponda – creature beate in attesa del paradiso. Ecco perché il cento per cento d’appoggio a Zelensky e Netanyahu non convince milioni di italiani. Ma davvero è così necessario sperticarsi, di fatto, a favore di tutto ciò che parla in americano da questa parte dell’Atlantico?

I sondaggi – dopo, ormai, un anno di governo – buttano comunque bene, per Meloni. Cgil e Uil, poco malleabili, preparano uno sciopero nazionale contro la manovra. La presidente del Consiglio sa che è nel conto – il… minimo sindacale –; poi le vite dei governi continuano. Ad aiutarla sono, avanti a tutti, le opposizioni: clamorosamente avvitate su se stesse. Diverse serie “obiezioni”– partendo per esempio dalle politiche per il lavoro e dalle gerarchie nell’impiego delle risorse – dovrebbero essere illustrate meglio all’opinione pubblica, ma spesso vengono immolate al nulla poiché è scarsa la capacità di comunicare: tutto avviene quasi svogliatamente, le armi per contrattaccare – anche in taluni, pur delicati, snodi – sembrano spuntate.

Appare però, la premier e leader di FdI, come incalzata – e ogni giorno di più – dall’inaspettato: nella sfera nazionale, in quella sovranazionale, persino nel privato. E paga molto caro lo scotto di non avere forse, a sorreggerla, sufficienti eccellenze nelle seconde e terze file; si ritrova soventemente, infatti, a metter toppe lì dove ministri e/o sottosegretari “incontinenti” la mettono in palese imbarazzo. Sicché la sensazione è che fatichi a tenere il tempo. Il che non può non preoccupare – in attesa che una più vivace dialettica interna torni a scuotere proficuamente il Paese – chi ha a cuore il futuro. Di questa stranissima Italia, che ci ha abituati alla fedeltà cocciuta di folte schiere di elettori, ma pure ad “abbandoni” eccentrici. Da qualche decennio una roba per ultrà, non molto di più: nessuno si illuda.

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