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Siamo figli del latino almeno quanto siamo figli delle stelle, il saggio di Vittorio Feltri

Vittorio Feltri

Siamo figli del latino almeno quanto siamo figli delle stelle: con questa frase, che può strappare un sorriso o far canticchiare il motivetto del celeberrimo brano, Vittorio Feltri nel suo saggio “Il latino lingua immortale. Perché è più vivo che mai” (Mondadori) conduce il lettore, sin dalle prime pagine, attraverso il sentiero percorso non solo da Cicerone, Cesare o Virgilio, ma anche dai loro contemporanei, con modi di dire che erano attuali all’epoca e lo sono tutt’oggi, dimostrando quanta modernità ci sia nell’idioma che parlavano i nostri avi.

Nella singolare veste di cultore di una lingua dal suono ammaliante che, come lui stesso racconta, ha fatto parte della sua esistenza sin da giovanissimo, Feltri prende posizione sin dall’inizio: con il latino non abbiamo mai smesso di fare i conti e il suo sconfinato legame nasce dalla capacità della lingua di racchiudere in un numero ridottissimo di parole anche concetti profondi e articolati. La gratitudine verso questa lingua - che, come una linfa, ha fatto fiorire arte, letteratura, innovazione, filosofia - non riguarda solo la plasmazione di una forma mentis, di una struttura logica rigida, l’interrogarsi sul senso di ogni parola o all’attenzione ai dettagli, ma soprattutto il suo fungere da lievito madre che fa accrescere competenze trasversali, predispone al problem solving e dona capacità nel gestire le informazioni complesse.

Perché, come diceva Antonio Gramsci: «Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita». Facendo comprendere al lettore in che maniera l’evoluzione abbia strutturato il lessico fino ad arrivare alla farmacologia, all’informatica e alla pubblicità, Feltri illustra la genesi e il significato, sia di vocaboli sia di frasi spesso travisate nel corso del tempo, come il celeberrimo carpe diem (cogli il giorno), alea iacta est (il dado è tratto), de gustibus non est disputandum (sui gusti non si deve discutere), do ut des (dò affinché tu dia), homo homini lupus (ogni uomo è un lupo per un altro uomo), per aspera ad astra (attraversare le difficoltà per arrivare alle stelle).

Al di là dell'indole provocatoria ed opinabile, che sempre contraddistingue Vittorio Feltri, il lettore ha la possibilità di scavare attraverso fatti di cronaca come l’assassinio del giornalista Walter Tobagi, gli omicidi del mostro di Leffe, l’allunaggio dell’Apollo 11, e di confrontarsi con il tema politico contemporaneo e non, che ciclicamente ritorna, come l'inchiesta su Mani Pulite, l’ascesa imprenditoriale e politica di Silvio Berlusconi, il Governo Meloni, la sindacatura di Virginia Raggi e il premierato di Matteo Renzi.

Una lingua precisa, il latino, un terreno mimetizzato che grazie a Virgilio, Orazio, Svetonio, Cicerone e Seneca continua ad indicarci il senso delle nostre esistenze, nonostante l’enorme distanza temporale che ci separa dalle loro opere. Una lingua con un’energia sufficiente per accendere ancora dibattiti, in grado di smuovere coscienze servendosi di parole ben scelte, per trovare l’utile che si nasconde in un linguaggio, nonostante la ricerca della bellezza venga meno, ogni giorno di più, nonostante la Storia che ci accompagna da secoli e il patrimonio culturale che avremmo sotto gli occhi. Possiamo affermare che questo testo è un’opera dall’aria nostalgica e rassicurante con un punto di vista che a molti suonerà familiare, ben confezionato nel suo insieme, un sentito attestato di stima verso una lingua che è tutt’altro che deceduta. Un’opera che tutti potrebbero aver la curiosità di leggere, giovani e meno giovani, amanti o meno della cultura classica.

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