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Inclusione: non un'addizione ma una "moltiplicazione", tra barriere, tranelli e... barricate

Un vocabolo insidioso, “inclusione”. Carico di buone intenzioni, ma a rischio di decadimento concettuale. Letteralmente: “inserire dentro come elemento aggiuntivo”, azione che appare conducente al risultato aggregativo. Ma se viene intesa solo come un meccanico “aggiungere a qualcosa” che già esiste, allora diventa un tranello letale. Il gruppo si apre non per ammettere qualcosa di diverso, ma per fagocitarlo: così, se non si declina l’inclusione con la differenza, si otterrà soltanto un’arida addizione di elementi, resi forzatamente omogenei.

Inclusione non è, ad esempio, aspettarsi che una persona con autismo faccia silenzio al cinema, come tutti, o stia immobile a una conferenza o a scuola (ambiente cruciale, in cui si costruisce una personalità accogliente, oppure no). Inclusione è adattarsi, immedesimarsi, riposizionare gli spietati standard di performance sociale, a partire dai canoni di comportamento, bellezza o perfezione fisica, come ci può insegnare il meraviglioso sorriso di una persona con sindrome di down o una medaglia paralimpica.
Inclusione è capire - da entrambe le parti: ma questo chi pratica con la disabilità lo sa perfettamente - che non tutti possono fare tutto allo stesso modo. È disponibilità all’incontro, per trovarsi a metà strada.

Non è forse mai stato così necessario, come lo è in questo preciso momento storico, fissare questi concetti, come una bandiera su una trincea. Una barricata innalzata per difenderci dall’ondata sconcertante di disimpegno sul fronte DEI, Diversità Equità Inclusione (molte aziende, fra cui Meta - tutti i nostri social - hanno cancellato le policy inclusive), mentre una sorta di bullismo politico, “respingente” e discriminatorio, infetta (dagli Usa all’Europa, dal Medioriente a casa nostra) l’atteggiamento quotidiano verso le altre persone, orientando allo scontro e al disprezzo, piuttosto che al dialogo e all'empatia.

Non resta che compattarsi in quella barricata, con l’articolo 3 della Costituzione e con il suo - e nostro - immenso custode. E magari con un vocabolario. Anche il linguaggio, per dirla con la sociolinguista Vera Gheno, più che inclusivo dovrebbe essere “ampio”, capace di rappresentare ogni diversità senza modelli “escludenti”, ispirati ad un profilo (maschio, etero, bianco, sano, ageista) minoritario, ma inspiegabilmente dominante.

Le barriere non si abbattono con un’addizione, o “deportazione” di differenze da ridurre a unità. L’inclusione è una moltiplicazione di diversità. Di scambi, aperture, adattamenti, idee, incontri, esperienze.
Se al posto di un “più” usiamo un “per” il nostro teorema avrà ottenuto il suo risultato esatto, senza errori.
Come volevasi dimostrare.

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