Guardare al futuro. Ma quali occhi indossare, ammesso che ci sia dato scegliere?
Per provare a immaginarci come saremo, per organizzare – pure – una speranza intorno all’avvenire di questo confuso pianeta, siamo obbligati a metterci, ora e onestamente, davanti a uno specchio. Solo se avremo provato, prima, a capire chi siamo, potremo avventurarci a congetturare sul dopo.
Chi siamo, ovvero come ci siamo trasformati. Ovvero come abbiamo smesso di vivere “il reale”.
Ebbene, siamo tempestati ogni giorno da un’alluvione ininterrotta di informazioni. Ciò interferisce con le nostre esistenze, anzi – arbitrariamente e senza discrimini tra il “vero” e il “falso” – le occupa e ne rimodula pensieri, desideri, obiettivi. È persino modificata, in ciascuno di noi, la lettura in itinere della propria “storia terrena”, rimodellate le geografie personali e la stessa idea d’ogni conosciuto e conoscibile Altro. Ormai sono i dati e non più i fatti a orientare le nostre vite. E la “biologia” deve cedere il passo all’overdose di comunicazione che, senza darci tregua, ci frastorna a trecentosessanta gradi.
Le cose “ordinarie”, lo sapevano bene i nostri nonni, sono il più delle volte poco appariscenti, poco rumorose. Oggigiorno, sebbene siano quelle che più connotano le nostre vite, sembriamo tenacemente impegnati a emarginarle. Non trovano posto nel mondo cui ci stiamo abituando, dove tutto si fonda su uno stupore che va continuamente rinnovato. Sicché – riflettiamoci, è più che un’evidenza – il nuovo “reale” non fa che disancorarci, ogni giorno, dalla possibilità d’essere noi stessi: non c’è il tempo di ripiegare e chiudere gli occhi, e così scoprire le prospettive che sono solo nel silenzio. Capacità di distanza e riflessione: il “gusto” – originale e unico – di chi interpreta, quell’assaporare che mai è compagno della voracità.
Ci si scruta e ci s’interroga meno
Scriveva, senza nascondere la sua grave preoccupazione, Michel Butor (1926-2016): «I nuovi mezzi di comunicazione sono certamente degni di plauso, però provocano troppo frastuono». Che è nemico della comprensione, quasi obbligata ad andature pacate che solo si pregiano, di tanto in tanto, d’improvvisi scatti.
Il problema è che, come già avvertiva Roland Barthes (1915-1980) all’avvento delle prime più invasive tecnologie, ci si scruta e ci s’interroga meno. Ed è sicuro che sarà sempre più difficile volgere lo sguardo all’interno per ritrovare la nostra identità di esseri umani. Si sarà comunque costretti a ricercarla fuori. E gli occhi da indossare non potranno che essere (provvisoriamente?) “quelli dei ciechi”. Per disimparare il superfluo della vita. Per tornare a vedere dopo aver calmierato tempi e tracimanti modi del web.
L’ascolto, qualità perduta
Rispettare significa, letteralmente, guardare indietro. Chiara l’etimologia, chiaro il senso: rispettare è quel momento di “dubbio” che ci obbliga a fermarci. Indirizzare a ritroso lo sguardo, attingere alla memoria personale e collettiva, far tesoro di esperienze non mediate ma autentiche, può aiutarci a capire. Una società senza rispetto, che non custodisca – al suo fondo – il pathos d’ogni pregressa storia, accaduta e... potenziale, perde enormemente in termini di qualità d’analisi, di visione, e si condanna alla superficialità. È così che la “conoscenza”, nella pratica giornaliera, è diventata schiava – poveri noi – del sensazionalismo. Non è un caso che recentemente si stia parlando di “società dell’indignazione”: dove c’è sempre meno spazio per uno sguardo ponderato si fa largo la facile isteria di chi si sottrae al confronto e, preferendo “inorridire” dinanzi alle incalzanti differenze – tutte scandalose –, ostacola il farsi condiviso delle idee, regola preziosa d’ogni nascente o matura democrazia.
Il sensazionalismo ha naturalmente il suo humus migliore nel chiasso comunicativo che non dà tregua alle nostre menti. Quasi nessuno indugia più nell’ascolto, e dovrebbe essere – questa – una fra le principali “attitudini” da recuperare. Il pensiero muove i primi passi origliando.
Le “verità nascoste”
Sarà necessario ridare consistenza al tempo. Oggi è quantomai precario, clamorosamente instabile. È un tempo accelerato, proteso vertiginosamente in avanti, un tempo spericolato e, di fatto, inabitabile. È un tempo, quand’anche attraversato da pandemie e guerre, senza fatti che vengano “classicamente” percepiti come autentici.
Perfino chi è dentro un conflitto, con missili e morti veri, si sperde...in propaganda. Nient’affatto somigliante a quella che in passato accompagnava buoni e cattivi, fatta di periodiche informazioni divulgate ad arte, false e vere, per condizionare amici e avversari. Alla nuova propaganda manca la dimensione analogica del pensiero. Per questo è facile sorprenderla mentre gira a vuoto.
Analogo significa simile, corrispondente, somigliante. Senza coordinate, senza punti di riferimento – traballanti e lasciati deliberatamente nell’ambiguità –, sarà sempre più difficile dire cose che siano avvertite appieno come vere. E quindi pianificare, se pure sarebbe utile, un “discorso” mirato per conquistare – ad esempio – consensi durevoli. Tutto è troppo fluido. Ed è così che durante i conflitti, nel gioco incrociato dei proclami farciti di demagogia, e delle minacce altisonanti, reiterate oppure smentite da spudorati passi indietro, nessuno crede a nessuno.
L’approccio virtuale rischia d’essere prevalente pressoché ovunque, a tutte le umane latitudini: in famiglia, dinanzi a un’alba mozzafiato, a un dipinto, anche lì dove vige l’orrore. E scopriamo che la percezione ha perso intensità, non trattiene corpi e volumi, non è mai profonda. La vita cui ci siamo voluti o dovuti assuefare – sommersi da notizie di eventi affastellate il più delle volte alla rinfusa, assediati in un continuo presente da “controparti” fantasmatiche – non consente più alla maggior parte di noi d’essere empatici nei confronti delle persone e delle situazioni reali. Se non coinvolti direttamente e parecchio, stentiamo a vivere davvero a fondo le esperienze. Come rimediare?
Avere accesso all’Altro
Hugo von Hofmannstahl (1874-1929) affermava con amarezza: «Le parole si sono messe davanti alle cose. E il sentito dire ha inghiottito il mondo». Ecco, una strada – per (ri)accostarci a una dimensione meno effimera di noi stessi, a una versione meno futile dell’esistente che ci pullula intorno – potrebbe essere quella di rimettere al centro la presenza, nostra e delle cose. Semplice presenza che non dovrà essere sovraccaricata di particolare enfasi: al contrario (ri)condotta a normalità, perché appaiano i significati che sono – spesso – nel non detto. L’essenziale che si mostra come nella lingua dei muti. Solo, occorrerà una “dimenticanza”, una sorta di rinuncia allo straripante senso di sé da cui sembra posseduta – segno distintivo dei tempi – la gran parte degli esseri umani, specie a occidente. È necessario che l’Io “si svuoti” perché abbia accesso al discreto proporsi delle cose. Bisogna diventare vulnerabili – lo insegna Cristo in croce –, bisogna poter essere attraversati per ricambiare e avere accesso all’Altro. La ferita, esemplarmente, come apertura, per scansare il rischio di rimanere rinchiusi – sordi a tutto – nel proprio piccolo recinto. Tante “citazioni” e poco orizzonte.
Sulla vitalità dei tempi morti
Spogliarsi, o – sufficientemente – alleggerirsi. Meno orpelli e, ridotte al minimo le apparenze e ogni spensieratezza farlocca, puntare sul nostro corpo nudo. Con sobrietà, evitando di scivolare da una cattiva “religione” a un’altra. Dall’annebbiamento perpetuo – ore e ore tra videogiochi, beceri talk show, film spazzatura e sbornie social – all’idea che quasi tutto, perché una persona si compia davvero, debba essere spirito e lavoro (ci si sostanzierebbe solo in una prestazione concreta e riconosciuta).
Nessuna rivoluzionaria redenzione, quindi, è richiesta sul fronte dell’intrattenimento. Va semplicemente gestito e – a differenza di quanto pensano alcuni miopi intellettuali – non demonizzato.
Onnipresente e in qualche misura santificato – addirittura – come fosse il paradigma del reale, l’intrattenimento è ormai preponderante nelle esperienze che ogni giorno, sempre più acriticamente, accumuliamo. Il piacere, nella sua forma più commerciale, si sostituisce alla passione, ed è questo il “fenomeno” che va arginato. Lo svago non deve distrarre l’anima al punto da colonizzarci fin dentro a ogni piega. La consapevolezza da conquistare è che in fondo l’inappropriato e il proprio della vita umana – comunque concetti da rifondare – possono e devono coesistere. Decisiva è la qualità dell’intrattenimento: smarrirsi, ce lo svela in modo esemplare la migliore letteratura, può essere utile, può regalarci reperti inaspettati e Bellezza – non si può non pensare a Maurice Blanchot (1907-2003) – là dove mai avremmo immaginato di trovarla. Nello sperdersi senza avere approdo, in questa e quella trama smagliata, c’è ancora – eccolo, il corpo nudo – l’uomo tutto intero, non per forza una caricatura. Immanente e trascendente non sono più tanto estranei: allo stato delle cose, si faticherebbe a pensarla diversamente.
Conto e racconto
La “società disciplinare” descritta da Michel Foucault (1926-1984), con fabbriche, istituti d’istruzione, caserme, ospedali, carceri e manicomi, non abita più qui. Il “presente” ostenta centri commerciali e centri di benessere, sale giochi e agenzie finanziarie, laboratori di post-politica e d’eugenetica. Il sesso non passa più per il corteggiamento ma s’offre – immediato – nei tempi sbrigativi del consumo. “Tinder” è il postalmarket del desiderio quand’è diventato lavoro. Ma la seduzione e la produzione sono inconciliabili...
E il lavoro, quello che serve per il pane ma anche per un attico sulla Fifth Avenue, cos’è diventato? Non è che produttività: tutto è performance, non c’è spazio per il soggetto, messo all’angolo dal farsi avanti delle “nuove sfide”, impersonali, individuate motu proprio o supinamente “importate”. L’aria che si respira, eppure, è elettrica e positiva: ogni azione – nonostante si receda, poco a poco, da se stessi – pare improntata al dinamismo e alla fiducia. Ciascuno, a livelli diversi, è imprenditore “autonomo”: sono tempi, come i pensatori emergenti sanno bene, in cui – perseguendo piccole e grandi carriere – si fa scempio dell’esistenza. “Motivazione”, “ottimizzazione”, “gratificazione”, “auto-realizzazione”. La bramosia di successo, l’ingordigia rispetto all’apparire e all’esserci porta alla graduale scomparsa di sé.
L’individuo tardo-moderno è – consideriamola la sua tipicità – ossessionato dalla competizione, è poco incline al contraddittorio e disinteressato alla ricchezza intima che può discenderne: solo, è interessato a prevalere. E ha in odio gli “intoppi” che possono essere causati dalla “concorrenza”.
E allora? Se il lavoro non contribuisce a favorire l’identità ma la decostruisce, mattoncino dopo mattoncino, ecco che si rischia un’implosione. Il mito dell’iperattivismo, se non adeguatamente ridimensionato, può uccidere. La depressione – nessuna sorpresa – è il male che più s’è diffuso negli ultimi decenni: al di là delle ragioni “biochimiche” è palesemente un indice alzato contro “il potere della prestazione”, contro l’obbligo al quale ci si vuol sottrarre. È un no ai ritmi dell’iperproduzione che inesorabile, attimo dopo attimo, ci spossessa di quel po’ che proviamo ad essere.
Ormai tutto viene numerizzato perché sia consentita, appunto, una classificazione nel linguaggio della prestazione e dell’efficienza. L’imperativo è confrontare: è per questo che l’homo digitalis conta incessantemente, perfino le simpatie riscosse sui social e quantificate grazie ai like. Peccato che la vita – il... suggerimento arriva dal nome d’un noto gioco per bimbi – più che di conto avrebbe bisogno di racconto. Attenzione, anche rispetto al sesso, a non scordarlo.
Il valore formativo del dolore
Contro le variopinte vetrine del generalizzato entusiasmo vanno rivalutate avversità e ombre, va riconosciuto il loro valore formativo. «La pandemia cominciata alla fine del 2019 – spiega lo straordinario filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han – ha evidenziato come vi sia un rifiuto collettivo della nostra vulnerabilità». Una rimozione che dobbiamo superare. Va scardinata anzitutto – è la prima fra le false certezze – l’idea che saremmo, tout court, “al sicuro”. E va recuperata la coscienza della morte che verrà.
C’è un senso, nel dolore. Averne paura ci priva di quel senso. Una vita ridotta a mera “fisiologia”, nuda e spogliata delle spine, sfinirebbe nell’inedia. Chi racconta meglio d’una malattia?
Le «sofferenze psicogene», secondo Freud, sono espressione di parole sepolte nell’oblio, messe da canto per sopravvivere liberi da fardelli odiosi e insostenibili. La terapia psicanalitica mira a individuarle, a rendere di nuovo possibile la personale storia del paziente ripartendo dalla frazione più vivida, quella – “caso” paradigmatico – lacerata da un ricordo negativo.
Riprendere il filo là dove, per troppo “orrore”, s’era spezzato. Vivere è sempre – eccoci daccapo – ripartire dalla ferita. Solo la carne... viva è vera apertura ai significati che giustificano la nostra attraversata sulla Terra.
Il potere e la condivisione
Gilles Deleuze (1925-1995) così annotava nell’anno della sua morte: «Ora il problema è procurare alla gente interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire». Le “forze della repressione”, infatti, «non impediscono alle persone di esprimersi; al contrario le costringono a esprimersi. Dolcezza di non aver nulla da dire, diritto di non aver nulla da dire: è la condizione perché si formi qualcosa di rarefatto che meriti, per poco che sia, di essere detto». Cos’è, tutto ciò, se non la resistenza a quella politica “liberale” che obbliga il mondo occidentale a una comunicazione e a una “condivisione” senza fine?
Quindi, innanzi alla martellante “domanda” di conformità, dovremmo addestrare (Pasolini docet) una coscienza eretica. E talvolta spingerla ai limiti.
Il controllo politico utilizza ormai una facies astutamente amica, ci induce ad automonitorarci, mappa in maniera subdola la nostra psiche; il fine è trasformarci in consumatori anche rispetto al più sacro dei beni: la libertà. E già in tanti guardano ai leader dei partiti come fossero semplici “venditori”: ne valutano passivamente la merce, pronti a cambiare negozio se insoddisfatti.
L’integrazione è falsa integrazione: dare l’amicizia è superficie, e dare ospitalità non è accogliere. Lo “straniero” va bene se ne sterilizziamo la diversità.
Eppure il vero potere, come benissimo è stato espresso da Hannah Arendt (1906-1975), parla la lingua della condivisione. È questo che la politica dovrebbe capire. L’espressione “potere non violento” non è – forse qualcuno si sorprenderà – la “contraddizione” lodevole che ispira ogni pacifismo, ma solo l’ovvietà di cui prendere atto.
Una coscienza planetaria
In tedesco la parola schonen (proteggere) è sorella, etimologicamente, di schön (bello). È un dovere morale, quello di trattar bene la Terra, luogo straordinario per il quale avere riguardo, come insegna il novantenne filosofo ed epistemologo ungherese Ervin László. Avremmo dovuto prendere più precauzioni, inchiodarci a regole che più tutelassero la natura. Ogni spazio verde inventato dal nulla o, fra quelli esistenti, coscienziosamente protetto, sarà un aiuto dato al “reale” perché gli riesca di arginare le troppe sollecitazioni snaturanti che insidiano la Terra e noi dentro la Terra, la nostra stessa identità.
La natura non illustra, non dà informazioni, non ha tesi precostituite né scopi. È bellissimo corpo vivo, esposto a ferite se scelleratamente vorremo infliggergliele, un corpo che – se troppo ammalato – potremmo, un giorno, non essere più in grado di curare. Teniamolo a mente
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