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Prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina: addio certezze dell’Occidente

Siamo passati dalla pandemia alla guerra in Ucraina, attraversando quella che gli economisti chiamano “interruzione” di catena logistica, che altera il gioco dei mercati. E dei prezzi. Stiamo tutti peggio. Ma non è solo una questione di soldi o di qualità materiale della vita. Semplicemente, abbiamo perso per strada tutte quelle “certezze” che ci eravamo fabbricati. Specie a Occidente, in generale, e in Europa, in particolare. Siamo al centro di una “tempesta perfetta”, che ci ha colti di sorpresa, dalla quale fatichiamo a uscire, perché non abbiamo ricette predeterminate. Il mondo è grande, complesso e imprevedibile. E quindi, sostanzialmente, ingovernabile. La vecchia geopolitica non funziona più e quella nuova ancora non esiste. Viviamo il paradosso di essere in una sorta di interregno, ricco di tecnologia, ma povero di spirito. Un Medio Evo dei secoli bui, nel Terzo millennio, in versione riveduta e corretta, dove i nuovi barbari non hanno né amici e né nemici. Ma solo interessi.

La guerra in Ucraina

Il nostro esasperato eurocentrismo ci porta, spesso, a dare chiavi di lettura troppo emotive (anche se condivisibili), ma che si scontrano con la necessità di trovare una soluzione diplomatica alla crisi ucraina. Troppa tattica e poca strategia, insomma. Non siamo sicuri, però, che in America sia lo stesso. Gli Stati Uniti sono una grande democrazia e il dibattito su Russia, Nato e Ucraina, è molto più articolato di quanto avviene in Europa. Per molti analisti, la pace dipende per la maggior parte da Putin, è vero. E il resto da Biden. Zelensky fa quello che può, ma deve sempre e comunque interfacciarsi con l’Occidente, ovverossia col Presidente americano, che finora ha contribuito a dettare i ritmi della crisi, più di quanto si possa pensare. Putin ha sbagliato molti conti e, probabilmente, s’illudeva di cavarsela con un “wargame” di facciata. Si è ritrovato, invece, in una specie di “Vietnam sarmatico”, con gli ucraini decisi a difendere con le unghie e con i denti la loro terra. Il prezzo che sta pagando è alto, molto alto. Le perdite sul campo di battaglia sono pesanti e quelle politiche ed economiche, per la Russia, nel lungo periodo, lo saranno ancora di più. Deve uscire da questo girone infernale, che ha scatenato, senza perdere la faccia. E il potere. Dall’altro lato c’è Joe Biden, la cui zigzagante politica estera diventa un altro elemento fondante dell’attuale confusione diplomatica. Diversi analisti hanno avuto l’impressione che la Casa Bianca potesse fare di più, per evitare questa guerra. Anzi, qualcuno (Niall Ferguson) è arrivato persino a ipotizzare che, in fondo, la crisi ucraina possa essere servita «a far dissanguare la Russia e a lanciare un avvertimento alla Cina». Per non farsi venire strane idee su Taiwan. Ma cosa pensano, gli americani, del lavoro fin qui fatto da Biden? Il prossimo novembre si voterà per le elezioni di Midterm e i Repubblicani cercheranno di riprendere il controllo del Congresso. Tutto quello che succede ora, in America, e già campagna elettorale, dunque. E tutto passa sotto le forche caudine dei sondaggi. Questo può spiegare, anche, alcune delle correzioni in corsa fatte da Biden alla sua politica. Nonostante ciò, il Presidente è in affanno. La sfilza di “polls” proposta da “NBC News” non promette nulla di buono. Il giudizio che riguarda la sua condotta sulla guerra in Ucraina è severo: il 71% degli intervistati lo giudica «incapace o scarsamente capace di gestire la crisi». Inoltre, l’83% teme che possa causare un aumento dei prezzi, l’82% è terrorizzato da un possibile conflitto nucleare e il 74% non vuole che vengano mandate truppe in combattimento. In generale, il “job approval” del Presidente è crollato, in un anno, dal 53% al 40%. Su questo pesa, naturalmente, anche l’economia e, in particolare, il boom dell’inflazione, schizzata oltre l’8%, come non si registrava da quarant’anni. A Washington gira la storia che Putin fa il bullo perché Biden è una figura evanescente. Joe Concha, su “The Hill”, ricorda il ritratto che ne fa nel suo libro Robert Gates: «Penso che si sia sbagliato su tutte le principali questioni di politica estera e di sicurezza nazionale, negli ultimi quattro decenni». Chi è Gates? Era il Segretario alla Difesa, quando Biden era il vicepresidente degli Stati Uniti. Lo conosce bene.

Usa contro Cina

Il “Global Times” di qualche settimana fa, in pratica il “Quotidiano del popolo” di Pechino in versione internazionale, ha pubblicato un ampio resoconto su una naturale vocazione della Cina a mediare nella guerra russo-ucraina. Anche se, sullo sfondo, si intravvede una strategia che punta a dividere il Vecchio continente dagli Usa. Per l’Ucraina, Pechino propugna calma, pazienza e rinuncia a qualche cosa, dunque. Nessun gioco “a somma zero”, per poter vincere tutti. Come ha detto il Ministro degli Esteri, WangYi, in una conferenza stampa che è sembrata una vera lezione di diplomazia. Ma, per dirla tutta, dobbiamo anche vedere il rovescio della medaglia: gli Stati Uniti diffamano la Cina, scrivono, corti e netti, nella stessa prima pagina del “Global Times”. Il quale, facendo da contrappunto all’apertura, chiarisce quale sia la reale posizione del colosso asiatico sulla crisi. I cinesi accusano il Consiglio per la sicurezza nazionale Usa di avere diffuso notizie false e calunniose. Il “Global Times” dice che la disinformazione è un vecchio trucco che gli Stati Uniti hanno sempre giocato. Aggiungendo, testualmente, che «per coincidenza, nonostante la situazione in Ucraina, gli americani sembrano avere aumentato i loro investimenti nella regione indo-pacifica, per contrastare la crescente influenza della Cina. Il che indica che gli Usa tentano di spostare i problemi legati alla crisi ucraina e di trarre profitto dai conflitti di altri Paesi». Una chiave di lettura geostrategicamente diversa, anzi quasi alternativa, rispetto a quella sostanzialmente eurocentrica che va per la maggiore nel Vecchio continente. E, calcando la mano, il “Global Times” conclude: «Gli Stati Uniti e la Nato stanno, insieme, spingendo l’Ucraina nel fuoco. In qualità di iniziatori del conflitto, gli americani accusano la Cina di non fare uno sforzo per aiutare. Il che è irresponsabile e immorale». Un colpo al cerchio e uno alla botte, da quelle parti la diplomazia gliel’ha insegnata Confucio: dici quello che non pensi e pensa a quello che non dici.

La sfida per le risorse

Volete sapere perché Stati Uniti e Cina sono diventati nemici per la pelle e rischiano, sempre più, di darsele di santa ragione? Beh, mettete da parte patria, bandiere, diritti umani, “sacri” principi libertari e tutti gli altri annessi e connessi, che vengono tirati fuori quando c’è da giustificare la rissa. Sono solo i contorni di una portata principale, che si chiama «tecnologia di ultima generazione». Insomma, per essere più chiari, chip, microprocessori, semiconduttori e fibre ottiche. A Washington, finora, facevano la voce grossa perché comandavano a bacchetta in tutti i laboratori di ricerca. Adesso, però, la Cina si è messa a fare la guerra agli americani sul loro stesso terreno. Un capitalismo stile “giungla d’asfalto”. Solo che qui lo Stato non tollera l’imperante anarchia dei padroni delle ferriere e fissa le sue regole, che non ammettono eccezioni. Il capitalismo in salsa cinese funziona alla grande. I lavoratori sgobbano come camalli e producono come tante api operaie. I tassi di crescita e di accumulazione sembrano uscire da un fumetto di Zio Paperone. Poco Mao e molto Walt Disney, insomma. Ma questa è solo una parte della storia, perché il resto del copione sembra scritto da Confucio e da Lao-Tze. I cinesi hanno una visione “grandangolare” del futuro che ci aspetta e vedono molto più in là del loro naso. Taiwan è il sogno proibito della Cina di Xi. L’isola è la prima produttrice mondiale di microprocessori. Se fosse nelle mani di Pechino, gli omini con gli occhi a mandorla dominerebbero il mondo dell’elettronica e l’Europa dovrebbe piegare la testa, molto più di quanto faccia attualmente. Al di là di tutte le proteste di comodo. Per ora gli Stati Uniti usano Formosa come una specie di Fort Apache della tecnologia. Non possono permettere che la Cina s’impadronisca delle sue fabbriche di microchip. Una volta era l’uranio a designare lo status di superpotenza. Ora è il silicio dei microchip. Presto sarà il litio degli accumulatori, necessari per le energie “rinnovabili”.

Burro e cannoni

Il pianeta vive pressanti emergenze: climatica, energetica, alimentare, migratoria e, in cauda venenum, l’ancora irrisolta pandemia da coronavirus. Per affrontare meglio queste sfide, l’umanità ha bisogno di pace e di stabilità. Ma, come abbiamo visto, deve procurarsi, soprattutto, le risorse necessarie. Che secondo molti analisti non possono essere massicciamente distratte e destinate all’acquisto di armi. È il vecchio dilemma tra burro e cannoni. Gli Stati Uniti, nel 2023, spenderanno la stratosferica cifra di 813 miliardi di dollari per la Difesa. All’Ucraina andranno le briciole. Il “Wall Street Journal” rivela che la preoccupazione strategica principale è rappresentata dalla Cina e dalla sua sfida nell’Indo-Pacifico. In particolare, al Pentagono, si temeun “bild-up” navale. L’enorme somma che Biden vuole destinare alle spese militari ha provocato la reazione anche di Bernie Sanders, la vera anima progressista dell’America. L’ex candidato alle primarie Presidenziali, oggi chairman del Senate Budget Committee, ha detto che gli Usa già spendono per la difesa più di tutti gli altri 11 Paesi, messi insieme, che li seguono in questa speciale classifica. E che non ci sarebbe proprio bisogno di aumentare ancora gli stanziamenti. Le polemiche, insomma, infuriano. Mentre Biden, invece, non stacca più l’occhio dai sondaggi, che lo danno sotto, di brutto. E così, incredibile ma vero, il futuro del mondo è legato anche a quali numeri trova, ogni mattina, quando si alza dal letto, il Presidente degli Stati Uniti.

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