Nel tennis l’essenziale è invisibile all’occhio profano: l’esatto contrario di quanto avviene nel calcio. Laddove per occhio profano s’intende quello di chi non ha mai tenuto una racchetta in mano. Diciamolo pure: nel pallone la percezione dello spettatore non giocatore rende quasi sempre possibili valutazioni vicine alla realtà oggettiva (partita bella/brutta, risultato giusto/bugiardo, giocatore bravo/scarso, rigore/arbitro cornuto). Nel tennis è diverso. Chi vede una partita percepisce un vincitore, uno sconfitto, e poco altro. È solo cronaca, una semplice partita, e diventa ontologicamente collocabile solo attraverso la conoscenza esatta di nozioni basiche. L’appassionato sa che terra battuta, cemento ed erba sono fattori primari, ha presente che un primo turno di Wimbledon vale più di una finale di Cincinnati, conosce la classifica mondiale e i rapporti di forza, percepisce l’importanza di precedenti, scontri diretti e curricula. Sa quando una partita è cronaca o storia: se è anziano a sufficienza vi parlerà del tie-break Borg-McEnroe a Wimbledon 1980, o di Lendl-McEnroe finale di Parigi 1984, l’artista sublime rimontato e trafitto dal picchiatore assassino.
Williams-Vinci semifinale dell’Us Open 2015. Ci hanno detto che è stato uno dei risultati più clamorosi della storia dello sport: giusto. Ma ci hanno anche spiegato che è stata una partita storica: sbagliato, anzi limitativo, e qui entra in scena l’essenziale, quello che è invisibile agli occhi. Bisogna aver giocato a tennis (anche a livelli infimi, come chi scrive) per provare a entrare sotto l’asciugamano di Roberta, al cambio di campo sul 2-6/6-4/5-4, prima di andare a servire per il match. Si è coperta la testa, interamente, e non può non aver pensato: “Lei è la numero 1 e tutti dicono che tra due giorni chiude il Grande Slam. Io ho 32 anni e non ero mai arrivata così in alto. Da una vita aspetto questo momento. Se vinco lei non fa lo Slam e io sono in finale con Flavia, una cosa mai vista. Fai l’ultimo sforzo. Ora”. È un’enormità, sono pensieri che schiacciano. È il mito di Davide e Golia, spogliato dalla forza della disperazione e armato d’incoscienza guerriera, del controllo assoluto dell’emozione, che scioglie braccio e gambe che il cervello vuol paralizzare. È forzarsi a credere, ancora per pochi minuti, quelli decisivi, che il tuo tennis leggero e sottile può fluire ancora, e finire di spezzare gambe e fiato a una gigantessa tanto più forte e potente di te. È affrontare la vita che ti passa davanti e gettarla, come insegna Kipling, in un lancio di dadi, con la gentilezza, squisita e struggente, di due demi-volée, i colpi più difficili nel momento più alto. Pochi lo hanno sottolineato, lei l’ha liquidato con semplicità: «Non so come ho fatto». Bugia. Dietro quel braccio che non ha tremato c’è molto di più della poetica eroica del gesto che produce un risultato impensabile e rimane nella Storia. C’è la dignità e il coraggio dello spirito, c’è quello per cui hai sacrificato la tua gioventù e che non accetteresti mai di far morire sul nastro, proprio sul più bello. C’è un’Epica, nella sua forma più pura. Minima, certo, ma non banale, intrisa com’è di solitudine, e orgoglio, e bellezza. Che nessuna storia e nessuno Slam riuscirà mai a pareggiare.
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