Il tricolore russo non sventolerà né alle Olimpiadi di Tokyo del 2020 né ai Mondiali di calcio in programma in Qatar nel 2022: lo ha deciso l’agenzia antidoping mondiale (Wada) escludendo la Russia dalle principali competizioni sportive internazionali per quattro anni e mandando su tutte le furie il governo di Mosca. Se il verdetto emesso oggi a Losanna è pesante, l’accusa non lo è di meno: secondo i funzionari mondiali dell’antidoping, i russi hanno falsificato i dati di laboratorio consegnati agli investigatori lo scorso gennaio in modo da occultare numerosi casi di doping. Una colpa ancora più grande se si considera che la Russia è già stata punita per lo scandalo del doping di Stato andato avanti dal 2011 al 2015 e che la consegna di quei campioni di laboratorio doveva sancire la sua definitiva riammissione nella comunità sportiva internazionale. Per la Russia dello sport i quattro anni di bando sanciti oggi all’unanimità dal Comitato Esecutivo della Wada sono una batosta colossale. Mosca potrà mandare alle Olimpiadi estive di Tokyo e a quelle invernali di Pechino solo gli sportivi che potranno dimostrare di essere «puliti». Ma questi dovranno gareggiare come atleti neutrali, senza bandiera né inno, come già avvenuto ai Giochi di Pyeongchang. Per quanto riguarda i Mondiali di calcio del 2022, se riusciranno a qualificarsi, i russi potranno giocare, ma sempre come atleti neutrali e non come squadra nazionale russa. La Russia non potrà inoltre ospitare eventi internazionali né partecipare alle gare per la loro assegnazione. A Mosca dipingono tutta la questione come meramente politica. Il premier russo Dmitri Medvedev ha subito bollato la decisione della Wada come un esempio di «isteria anti-russa» e ha ribadito la posizione ufficiale di Mosca su questo delicato argomento: la sentenza - ha detto - va «contestata». La Russia dovrebbe quindi impugnare il bando davanti alla Corte di arbitrato per lo sport (Cas) di Losanna. Ma il caso appare tutt'altro che semplice, anche perché le autorità sportive russe risultano recidive. Il capo dell’agenzia antidoping russa (Rusada) Yuri Ganus lo sa bene e mentre il suo governo promette battaglia lui pone la sua voce fuori dal coro e sottolinea che per la Russia «non c'è nessuna chance di vincere in tribunale». Secondo Ganus, il bando è «una tragedia» perché «gli atleti onesti vedono limitati i loro diritti». La consegna di tutti i dati del laboratorio di Mosca era però una condizione chiave della controversa reintegrazione della Russia sancita nel settembre del 2018 dopo tre anni di sospensione per il doping di Stato, le cui ripercussioni sui Giochi di Sochi furono gravissime. Pare che con l’aiuto dei servizi segreti, i campioni di urina degli atleti dopati venissero sostituiti con analisi «pulite» attraverso un buco in un muro del laboratorio russo. «È stato fatto tutto il possibile per risolvere questa situazione», si è giustificato il ministro dello Sport russo, Pavel Kolobkov, riferendosi al problema del doping in Russia. A Mosca però negano che si tratti di un sistema messo in piedi dallo Stato. Il presidente della Wada, Craig Reedie, sembra pensarla in tutt'altro modo e oggi ha sottolineato che quest’ennesima violazione da parte della Russia «richiedeva una risposta forte». È arrivata.