OlimPILLS, Tommie Smith e John Carlos ai Black lives matter: a Città del Messico un pugno al cielo per far piovere diritti sociali
26 febbraio 2012, siamo a Sanford, Florida, Stati Uniti. Un ragazzo si aggira per un quartiere con un atteggiamento che non convince affatto uno dei residenti, impegnato in una ronda notturna. Trayvon Martin ha la pelle di colore nero, ha 17 anni. Aveva 17 anni, perché l’uomo che lo guarda con fare sospetto, George Zimmerman, spara e lo uccide. Non verrà incriminato, pochi mesi dopo in Tribunale, perché l’episodio è avvenuto in circostanze poco chiare. Tanto basta a scatenare l’insurrezione social e dilaga l’hasthag #blacklivesmatter. In quei giorni nasce proprio il movimento che negli anni avanza, seppur in maniera silenziosa, fino a deflagrare il 25 maggio del 2020, giorno dell’omicidio di George Floyd, dopo che per 9 minuti l’agente di Polizia Derek Chauvin preme col ginocchio sul collo per immobilizzarlo. “I can’t breath” - “non riesco a respirare” - sussurra Floyd senza successo, prima di raggiungere lo stato di incoscienza - ciò non suggerisce comunque all’agente di sollevare il ginocchio - e di morire. La morte di Floyd scatena la reazione del mondo dello sport. A cominciare dall’atleta afroamericano più forte di tutti, Lebron James. Black Lives Matter dilaga. Prima di ogni evento, atleti provenienti da tutte le parti del mondo, con la pelle bianca o nera, s’inginocchiano. L’epoca dei social amplifica la forte presa di posizione. Eppure, poco più di mezzo secolo prima, nel 1968 - anno molto turbolento, di ribellione, in cui la richiesta di diritti raggiunse il picco massimo, c’erano stati i precursori dei Blacklivesmatter. Città del Messico era alle prese con l’Olimpiade, un’occasione troppo importante per essere compromessa dalle proteste dei manifestanti. Dieci giorni prima del mega evento, la polizia represse nel sangue una manifestazione di protesta degli studenti messicani. Decine di morti e 700 feriti. Tra questi anche la scrittrice italiana Oriana Fallaci: “Sembrava il Vietnam”, ebbe modo di dichiarare. Una strage che non impedì alla macchina olimpica di accendersi. Ma i Giochi del 1968 passarono alla storia anche per il gesto dimostrativo degli americani Tommie Smith e John Carlos che, dopo aver vinto oro e bronzo nella gara dei 200 metri si presentarono sul podio scalzi, a testa basta e con un guanto nero, sollevato al cielo in segno di protesta, associandosi al dissenso espresso dalle Black Panthers: “Protestavamo per i diritti dei neri”. Indossarono anche una divisa con una stella simbolo della difesa di quei diritti. Pochi giorni dopo li emularono i connazionali che vinsero sui 400 metri Lee Evans, Larry James, Ron Freeman che al guanto nero aggiunsero un basco. Pagarono, tutti e cinque. Vennero emarginati dal proprio Paese, persero il lavoro e il blasone di olimpionici che avevano portato a casa grazie alla medaglia. E pagò anche Peter Normann, australiano che conquistò l’argento nella gara dei 200 metri e scelse per solidarietà di indossare la stessa stella di Smith e Carlos: tornò nel suo Paese e subì la stessa segregazione dei compagni di podio. Trascorse una vita anonima, da insegnante di educazione fisica, prima di morire a causa di un infarto fulminante a 68 anni. A trasportare il feretro, nel giorno dei funerali, in prima fila, c’erano due signori anziani afroamericani: Tommie e John. Tommie Smith e John Carlos.