C’è un uomo che piange in pista. È prono, ha gli occhi semichiusi - passano solo le lacrime; i palmi delle mani spingono su quella stessa pista e il naso è appoggiato su una sagoma di gesso. Sembra quasi il suo talismano. Lui piange e il pubblico applaude. Quell’uomo ha appena partecipato a una delle gare più incredibili, in termini di emozioni, della storia dell’atletica ai Giochi Olimpici. L’uomo del nostro racconto è Gianmarco Tamberi, detto Gimbo, campione del salto in alto che indossa la canotta della nazionale italiana. Non piange perché ha vinto l’Olimpiade di Tokyo, ma perché si guarda alle spalle e vede il suo percorso. Qualche metro più in là, c’è un altro uomo. Ha al pelle scura e indossa una canotta di un altro colore: è un avversario di Tamberi; non piange ma sorride, perché quell’oro dell’italiano lo sente un po’ su. E non solo perché è suo - hanno appena concordato di non ricorrere all’ultimo salto, dividendosi il primo posto, perché il regolamento lo consente - ma in quanto c’è “del” suo nell’impresa di Tamberi. Torniamo al primo uomo, quello che indossa la canotta della maglia della Nazionale. Tokyo per lui è l’Olimpiade. È nel pieno delle forze, sa di essere molto molto forte, ma porta con sé una ferita gigantesca. Non solo fisica: è uno squarcio meno visibile che però gli ha passato l’anima da parte a parte. Tamberi ha saltato gli ultimi Giochi a causa di un infortunio gravissimo. Ha perso quattro anni, in sostanza, che per chi come gli atleti ha un orologio biologico impietoso, non è il massimo. Ché poi gli anni sono cinque, a causa del Covid che ha fatto slittare di 12 mesi la kermesse a cinque cerchi. Il suo naso è appicciato al gesso che, fino a qualche mese prima, aveva protetto e gestito il ritorno alla normalità della sua gamba, dopo che un maledetto salto l’aveva sbriciolata insieme alle sue certezze di andare a vincere le Olimpiadi di Rio del 2016. Un maledetto salto, nel Meeting di Parigi, utile a centrare un record (perché la medaglia d’oro intorno al collo l’aveva già) ma nei fatti devastante. Una lunga degenza, l’addio ai Giochi brasiliani e una grandissima difficoltà a recuperare la brillantezza nei mesi successivi. Ed è in quelle circostanze che l’altro uomo, un qatariota, Mutaz Barshim, torna nella nostra storia.
È il primo luglio del 2017. Si torna sul luogo del misfatto, a Parigi, in occasione del Meeting annuale. Tamberi è di nuovo in gara a distanza di un anno, ma toppa di brutto. A fine competizione, si rannicchia tra le coperte della stanza d’albergo e fatica a rialzare la testa: “Tornerò mai quello di prima?” Si chiede. Nel frattempo qualcuno bussa alla porta e gli chiede di entrare. Porta con sé un fazzoletto per asciugare le lacrime di Gimbo e tanta saggezza: “Prenditi tempo, sei fortissimo, tornerai quello di prima”. Barshim e Tamberi, a Tokyo, divideranno lo stesso gradino del podio, il più bello. Il destino ha chiuso così il cerchio magico. Quel tragitto dall’inferno al paradiso lo hanno percorso insieme. Ecco perché quell’altro uomo, mentre Tamberi piange e stringe a sé quel gesso, guarda compiaciuto e sorride. Perché quella scena l’ha sognata sin da quando, bussando alla porta di una stanza d’albergo, tirò su di morale un amico, prima che un avversario, dandogli la forza di ricominciare.