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"Fuori era primavera", delicata e preziosa memoria collettiva

Un film che non è un racconto immaginifico e neppure idealizzato, ma la realtà di sconosciuti che diventa comune e credibile

I messinesi Bruno e Bea Luciano, tra i protagonisti del docu-film

Quando i figli del 2020 ascolteranno dalla voce dei genitori o dei nonni l’epica storia dell’anno di (dis)grazia in cui sono nati, le immagini che potranno meglio rappresentare la narrazione saranno certamente quelle di “Fuori era primavera”, il film corale di Gabriele Salvatores, in onda su Raitre il 2 gennaio, ma già presentato al Festival di Roma e in streaming su Raiplay.

L’idea di raccogliere i video amatoriali dei tanti italiani che si riprendevano nel loro isolamento casalingo durante il primo lockdown per realizzare un film-documentario con il quale dare testimonianza a futura memoria era tanto semplice nella concezione, quanto complessa nel bilanciamento delle emozioni. Affidare ad un regista, sia pure famoso, il frutto di momenti colti in un periodo difficile, di minimi diari familiari, di un’intimità casalinga vissuta nella consapevolezza che non vi era un mondo “fuori” col quale confrontarsi, poteva essere un atto di fede nei confronti di Salvatores.

Il rischio, infatti, era che i video fossero travisati, manipolati o riportati in un contesto diverso da quello immaginato da coloro che, con entusiasmo, avevano mandato le loro riprese. Ma bene hanno fatto i tanti che hanno partecipato a questo collage collettivo, perché il prodotto finale va al di là del documentario per diventare un vero e proprio film di autori, con una linea narrativa che esprime un sentimento unico e corale al tempo stesso.

“Fuori era primavera” è un’opera commovente, esaltata da un sapiente montaggio e nella quale Salvatores riesce a fondere tutte le categorie aristoteliche: sostanza, qualità, quantità, relazione, dove, quando, giacere, avere, agire, subire, riportandole all’unità del momento storico. Un film che non è un racconto immaginifico e neppure idealizzato, ma la realtà di sconosciuti che diventa comune e credibile. Per quanto possa apparire paradossale, anche le riprese nelle terapie intensive, l’ansimare di respiratori meccanici, la fatica dei primi piani degli operatori sanitari in prima linea faceva trasparire un senso di lotta e speranza che infondeva coraggio e dava un senso di quiete pur nei tanti dolori patiti da chi ha perso un affetto a causa del virus.

Tutti abbiamo vissuto lo strazio di alcune immagini che in questi mesi hanno rappresentato il quadro della pandemia, eppure nelle stesse riprese non si coglieva l’angoscia ma il significato di comunità, il momento della vicinanza, il riflesso della solidarietà, forse i migliori sentimenti che questo maledetto virus ci ha lasciato e l’invito che Salvatores ha voluto comunicare con il suo delicato lavoro di tessitura è quello di non sacrificarli sull’altare della rabbia e dell’egoismo.

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