Quando facciamo squillare il suo telefono, lo troviamo intento a “gareggiare” con il senso di spaesamento, di cui ha spesso parlato in questi giorni. Michelangelo Frammartino («calabrese di Caulonia, nato a Milano», si definisce) si muove, tra gioia e preoccupazione, sotto i riflettori della Mostra cinematografica di Venezia, in assoluto contrasto con il buio e il silenzio del suo film in concorso “Il buco”, che ha avuto una straordinaria accoglienza di critica e di pubblico (dieci minuti di applausi).
La storia della “conquista”, avvenuta nel 1961, da parte di un gruppo di speleologi piemontesi, dell’Abisso del Bifurto – una grotta profonda 687 metri nel Pollino calabrese, fra San Lorenzo Bellizzi e Cerchiara di Calabria – è un film girato fra un esterno in cui la natura sovrasta l’uomo e un interno che è una sorta di K2 al contrario (l’accostamento è il suo). Ed è quanto di più lontano si possa immaginare da un red carpet di personaggi famosi. «Proprio per questo – ci dice – abbiamo percorso il tappeto vestiti da speleologi, non era una trovata pubblicitaria. Era piuttosto la divisa del nostro lavoro carsico, presente sottotraccia in tutte le arti e nelle attività sociali. Per un paio di giorni si emerge alla luce e poi si torna felicemente di sotto e si continua a lavorare».
Tuttavia prima di emergere ha avuto qualche dubbio. «Sì, con i miei collaboratori ci siamo chiesti se il nostro film non fosse in contraddizione con la visibilità e l’esposizione che l’essere in concorso a Venezia comporta. Poi conoscendo le qualità e la sensibilità del direttore Alberto Barbera, che ci aveva invitato già parecchi mesi fa, abbiamo deciso di affidarci alla sua competenza».
Comunque, visto il successo, e ricordando che il suo “Le quattro volte” del 2010 è stato inserito a pieno titolo nella storia del cinema italiano, possiamo dire che lei è “condannato” a realizzare capolavori.
«Su questa cosa preferisco scherzare. Visto che in Calabria l’animale più importante è la capra e a Caulonia diciamo “casa e carni i capra”, dico che abbiamo realizzato un “capolavoro”».
Che riuscirà a portare il pubblico nelle sale?
«“Il buco” si può fare forte della voglia di comprendere che ha il pubblico. Non credo che sia giusto inseguire soltanto le belle immagini, le storie che attirano. Io porto verso la frontiera, verso gli orizzonti sconosciuti, dove agli spettatori in sala tocca non solo di recepire ma anche di immaginare. Chi viene al cinema deve prendersi la responsabilità di esplorare e avere la capacità di voler capire».
Non sarà stato facile trovare i produttori.
«All’inizio, quando eravamo nella fase di ricerca avevamo pochissime risorse, ma abbiamo avuto aiuto, disponibilità e affetto sia dagli abitanti del Pollino sia dal mondo della speleologia. Con amici abbiamo costituito una piccola società e poi siamo stati fortunati perché abbiamo trovato subito partner internazionali, in Francia e in Germania, che hanno creduto nel progetto. Non so come mai, perché io sono stato sincero e ho raccontato subito della grotta e di tutto il resto, compresi gli attori non professionisti. A loro è piaciuto e siamo partiti, anche con il sostegno della Calabria Film Commission».
Il suo è stato definito “cinema del reale”, eppure ci sono anche metafora e simbologia. O no?
«Io lavoro con la materia, come si farebbe in una sartoria. Individuo i legami tra le persone e i luoghi, immagino già il montaggio nella mia testa. Sono fortissimamente materico, adoro l’arte povera, ma accetto l’idea che si vedano pure le metafore. Le connessioni le trova il pubblico».
Lei fa apparire il grattacielo Pirelli in costruzione, qualcosa che va verso l’alto, in non casuale contrasto con l’abisso.
«Anche questa è realtà, racconta com’era l’Italia in quel momento storico, protesa verso la rinascita. Mio papà arriva a Milano, esce dalla stazione e la prima cosa che vede è quel grattacielo. Ma lui e mamma rimangono una famiglia calabrese e io da sempre parlo contento il dialetto».
Già, la Calabria: impossibile da definire sia ieri sia oggi?
«Difficilissimo: si discute da sempre della sua identità. Qual è? La Calabria Citeriore è diversa dalla Calabria Ulteriore. Mi riferisco alla zona di Caulonia nel Reggino, dove da ragazzo ho trascorso tante lunghissime estati e dove ho girato “Le quattro volte”, o a quella del Pollino, dove ho lavorato adesso, trovando anche un altro accento dialettale e un altro modo di parlare? La realtà che unisce l’una e l’altra mi dice che da questa regione si continua ad andar via: per formarsi, per lavorare, per curarsi. Siamo mentalmente radicati, ma continuiamo a scappare. Questo è triste».
Torniamo al suo cinema. Lei indaga sempre il rapporto tra uomo e natura.
«Quando all’inizio della Mostra sono stati proiettati i trailer dei film in concorso ho visto una successione di inquadrature di attori, bravi, tutti in primo piano rispetto a un paesaggio sfocato e sullo sfondo. Direi che siamo ossessionati da noi stessi, ci mettiamo sempre al centro, protagonisti in ogni cosa. Io credo invece che il cinema debba far fare un passo indietro all’uomo, renderlo sfocato e creare una nuova alleanza con il contesto, da raccontare in primo piano. Purtroppo noi umani riusciamo a essere molto dannosi nei confronti della natura».
E infine come ci spiega il senso del buio e del silenzio nel suo film?
«Discorso complesso, il silenzio è talmente articolato da mettere in crisi. Non è stato facile per noi andare avanti in questa dimensione: ore e ore per scendere a 400 metri (dove abbiamo girato la maggior parte delle scene nella grotta) e sistemare le apparecchiature, per poi lavorare per non più di un’ora, con momenti anche di scoramento. Si perde il ritmo giorno-notte, è diversa l’escursione termica, cambia qualcosa nel corpo e nel modo di essere. Quella degli speleologi non è solo sfida, è una dimensione diversa che si vive in squadra e credo che il film la faccia percepire».
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