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"Giuditta e il monsù", impastare e cuocere le storie

«Quel che voglio raccontare è un tempo della Sicilia dell'800, soprattutto della parte sudorientale dell'isola, in cui le classi aristocratiche vivevano con le persone che lavoravano per loro in un coacervo di umanità troppo spesso trascurato a causa della damnatio verso la classe nobiliare ritenuta spocchiosa, prepotente e parassitaria, comune a un certo modo di parlarne degli anni 50/60 del secolo passato. Senza dimenticare le ombre (tante cose sarebbero giustamente inconcepibili oggi), molte famiglie nobili siciliane contribuirono invece alla divulgazione della cultura, ad azioni politiche libertarie, all'imprenditoria, alla creatività e alle relazioni internazionali».

Ci dice così Costanza DiQuattro, autrice di “Giuditta e il monsù” (Baldini+Castoldi), il suo bel romanzo in libreria da oggi e presentato, sempre oggi, alle 18, da Franco Di Mare nell'androne del palazzo Arezzo di Donnafugata. «Un'emozione grandissima farlo nella mia casa» dice Costanza, che di quella famiglia, il cui “castello” gattopardiano è fermo nell'immaginario di tutti grazie a Tomasi di Lampedusa (e al cinema di Visconti), è erede e testimone. E se con il romanzo “Donnafugata” ha colmato la smemoratezza della storia riportando alla luce Corrado Arezzo barone de Spucches di Donnafugata, aristocratico illuminato che contribuì alla storia della Sicilia e dell'Italia, in quanto uno dei padri che diedero forza alla rivoluzione del 1848, classicista e collezionista di profonda cultura, deputato al Parlamento siciliano, deputato e senatore del Regno d'Italia, con “Giuditta e il monsù” la DiQuattro, che è pure autrice teatrale e dal 2008 si occupa a Ragusa, assieme alla sorella Vichy, del restaurato bel teatro di famiglia Donnafugata, continua ad affondare la penna e l'immaginazione nell'archivio-scrigno di famiglia per raccontarci una storia d'amore, dolcissima e drammatica, tutta d'invenzione ancorché realistica. E per liberare con la sua prosa lieve e struggente che si scioglie in qualcosa di più profondo, echi di vite vissute, madeleine di aromi e profumi e di colori, ora accesi ora in chiaroscuro: il mondo di Giuditta, figlia del marchese Romualdo di Chiaramonte, e di Fortunato, figlio del monsù di palazzo Chiaramonte, venuti alla luce nello stesso maggio 1884.

Costanza, questo romanzo è come se fosse nato direttamente da un libro di ricette attorno al quale ruota una storia possibile benché d'invenzione.

«Ha colto una verità. Tutto nasce da una raccolta di ricette trovata nella mia casa e in cui il monsù annotava settimanalmente il menù per la famiglia. Da questa figura del monsù con la sua preziosa arte della cucina, dai legami stretti che si stabilivano con la famiglia, e dal mondo che ruotava intorno alla cucina, al di là dei ruoli sociali e del ceto di appartenenza, è nata questa storia d'amore, che è pure un modo di recuperare usi, costumi (mi sono documentata sulla moda, ad esempio, consultando la rivista “Illustrazione italiana”), parole, proverbi, modi di dire, riti».

E, infatti, la cucina è il luogo alchemico in cui “s'impasta” la storia d'amore tra Giuditta e Fortunato e a cui afferiscono gli umori della famiglia del marchese. L'immagine dei due ragazzi che si scambiano intesa e sentimenti mentre tuffano le mani nella sfoglia o nel ripieno delle impanate fa pensare all'asino accarezzato da Mena e Alfio dei Malavoglia.

«Proprio così. E sono tante le suggestioni dei grandi autori siciliani presenti in filigrana nei miei romanzi. Anche se ho riscoperto Calvino e di Calvino è l'esergo del romanzo. Ne ho avuto una sorta di innamoramento che ha contribuito a farmi scrivere questa storia. Giuditta e Fortunato sono due personaggi d'invenzione: mentre lei è testarda, determinata, ribelle, lui si impone per la sua dolcezza. Diciamo che Fortunato è un po' il paradigma di tutti gli uomini della mia famiglia, a cominciare dal barone Corrado, tenerissimo con le donne di casa, per continuare con mio padre, mio marito, mio figlio».

Eppure, i suoi romanzi sono popolati di personaggi femminili sui quali si ferma la sua attenzione.

«È vero, ci tengo a parlare del mondo femminile. Ma non solo di quello schiacciato da violenze e soprusi come nel mio testo teatrale “Barbablù”. Perché sono convinta che quella siciliana sia una società matriarcale, nel bene e nel male, e non patriarcale. Volevo raccontare questa mia visione del mondo e sciogliere un inno alla parte bella, alla tenerezza del sesso maschile».

Che poi, anche il marchese Romualdo, circondato da un mondo al femminile, è un tenerone, benché non abbia la statura di Corrado. Anzi tra i due è proprio Romualdo che sembra un gattopardo ammansito anziché Corrado.

«Lo penso anch' io. Il vero gattopardo è Romualdo, che si adagia nelle cose che non cambiano, che assiste ai fatti e non accetta il fallimento. E non Corrado, uomo d'azione, di idee avanzate, di grande onestà intellettuale e senso di responsabilità. Come evidente dal fatto che il pensiero fisso del figlio maschio, presente in Romualdo, fosse lontano dalla mentalità di Corrado».

Ancora la Sicilia dell'800, di fine '800, in questo romanzo. Però stavolta la storia si spinge fino al primo quindicennio del '900. Ma, al contrario di “Donnafugata”, la grande guerra, come altri eventi storici, è lontana, sfumata, di fronte alla guerra personale dei personaggi.

«Mentre in “Donnafugata” c'è un personaggio storico, qui al centro di tutto c'è la storia d'amore, una storia che potrebbe appartenere a qualunque tempo e che sembra provocata da una beffa del destino».

Lei sicuramente ha nel suo scrigno molte storie da raccontare, non teme di cadere negli stereotipi?

«Spero di non cadere nello stereotipo della Sicilia di mafia, di violenza, benché sia consapevole che non voler cadere nello stereotipo sia già di per sé uno stereotipo. E comunque dagli stereotipi mi sto emancipando passando, appunto, da “La mia casa di Montalbano” a “Donnafugata” a “Giuditta e il monsù”».

Ha già in gestazione un'altra storia? Magari con Maria, la figlia di Corrado morta a Messina nel terremoto del 1908 e che sembra la controfigura di Amalia, il bel personaggio d'invenzione, figlia di Romualdo.

«No, nessuna storia. Voglio godermi questo romanzo. Sono stata già al Festival delle Idee di Venezia e a novembre sarò al Bookcity di Milano».

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