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Abitò in Calabria, lavorò in Sicilia: Vittorio Gassman, l’avevamo tanto amato

Sembrava domato, lui che aveva fatto il domatore del pubblico, tanto da dirmi nell’ultima volta che l’ho intervistato (1996): «Sono un essere fragile, da trattare con dolcezza». Come spesso gli capitava, diceva la verità e mentiva nello stesso tempo. Perché Vittorio Gassman, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, era così: un combattente che voleva primeggiare anche in un’eventuale sconfitta. Perfino la depressione, che a intervalli l’aveva colpito tre volte, era stata l’occasione di nuovi spettacoli, autobiografici, e di diversi libri di successo come “Un grande avvenire dietro le spalle” e “Memorie del sottoscala”.

Del resto, a domarlo non è riuscita neppure la morte (29 giugno 2000), e non perché, come aveva detto, gli sarebbe piaciuto essere imbalsamato, aggiungendo con macabro umorismo di immaginarsi in un salotto come un gufo impagliato e con la sua voce registrata, ogni tanto avviata per spaventare i presenti. Piuttosto perché è evidente come la sua popolarità è ancora intatta, grazie al cinema soprattutto, anche se il suo vero amore di sempre e per sempre è stato il teatro.

Fisico possente (alto 1 metro e 87), sportivo (giocò anche nella Nazionale militare di basket), aveva modellato la sua voce nasale fino a farne uno strumento più adatto ai versi potenti delle tragedie che ai sussurri borghesi, anche se ha affrontato ogni confronto possibile, recitando perfino accanto a Ruggero Ruggeri e Renzo Ricci (il primo suocero che all’inizio lo aveva definito “guitto implume”, salvo cambiare idea). Così Gassman è stato associato a una tradizione superata, quasi un reperto, di valore, di un teatro che non sarebbe più dovuto esistere. Invece al cinema nella “commedia all’italiana” svelava un volto diverso in tutti i sensi, se si pensa al primo suo ruolo comico ne “I soliti ignoti” (1958) di Mario Monicelli, in cui la sua faccia, diventata di gomma, dava vita alle incertezze di un ex pugile un po’ suonato.

Davvero era superato? Tutt’altro, perché l’attore romano, ma nato a Genova da padre tedesco e madre toscana (mancata attrice, è lei che lo iscrisse all’Accademia), è stato un innovatore. E la grande tragedia con i suoi archetipi ancora oggi è tutt’altro che superata. Lui l’ha messa in scena (a Siracusa, per esempio, adottando per primo nel 1960 una traduzione di Pasolini per l’Orestiade) non solo con la parola, ma con tutto il corpo.

È stato detto che Gassman ingaggiava una specie di duello con il pubblico, lo voleva portare a essere parte dello spettacolo, non con la partecipazione dalla prossemica ravvicinata tipica del teatro sperimentale, ma facendolo entrare in esso con la mente e con il cuore, perfino con la pancia, fino a comprendere il significato di ogni verso. L’attore non si accontentava dell’amatissimo “Edipo re” o delle tragedie scespiriane come nella tournée di “Otello” (1956-’57), in cui lui e Salvo Randone si scambiavano, un giorno per uno, i ruoli di Jago e del Moro. Non era riuscito a “convivere” né con l’amico regista Luigi Squarzina, già suo compagno al liceo, né con Luchino Visconti, che pure aveva fatto decollare definitivamente la sua carriera, collaborazioni giunte al capolinea proprio per colpa di due tragedie: “Prometeo incatenato” di Eschilo per Squarzina (messo in scena a Siracusa con il regista e l’attore che si parlavano solo per interposta persona) e “Oreste” di Alfieri per Visconti.

Gassman si riconosceva piuttosto in “Kean, genio e sregolatezza” (1955), un titolo in cui ritrovò i suoi connotati, di accanito fumatore e formidabile bevitore, nella versione di Sartre (scelta non scontata) da Dumas padre. Un progetto gigantesco, in cui nel 1960 mise in gioco tutto ciò che aveva guadagnato, fu quello di far conoscere testi italiani trascurati, portandoli in giro con un megateatro trasportabile. Messo in scena “Adelchi”, si scoprì che la struttura era troppo grande per viaggiare. Gassman fu costretto ad affittare un tendone da circo: il successo fu clamoroso e mai più, credo, una tragedia di Manzoni potrà avere un tale pubblico entusiasta.

Ma il cinema lo stava catturando, mentre la tv in cui aveva spopolato con “Il Mattatore” (1959) non lo entusiasmava. Dopo banali ruoli di cattivo – il più famoso in “Riso amaro” –Monicelli lo aveva trasformato in comico. Esaurita la parentesi a Hollywood, ai tempi della moglie americana Shelley Winters, fu Dino Risi a dargli la dimensione più completa con “Il sorpasso” (1962). Da un film all’altro, Gassman nel 1966 recitò in “L’armata Brancaleone”, creando un cavaliere errante dalle fantasie esagerate e dai modi sgangherati, che mi sembra un’intelligente parodia di se stesso. Il periodo è quello del legame con l’attrice francese Juliette Mayniel (madre di Alessandro, uno dei quattro figli da madri diverse), quando prese una lussuosa casa sull’Aventino (con annesso teatrino privato), con serate basate sui grandi numeri: almeno cinquanta ospiti a volta e alcol senza freni.

Da quei giorni vissuti sopra le righe, nonostante la tranquillità sentimentale raggiunta poi con la moglie Diletta D’Andrea, probabilmente arrivò il male oscuro, espressione di una perduta vitalità, che lo aveva portato anche a chiudere nel 1992 la Bottega Teatrale di Firenze in cui aveva formato tanti attori. Prima, però, era stato ancora il teatro a ispirargli un altro innovativo progetto-sfida, “Sette giorni all’asta” (1977). Per una settimana non si mosse dal Teatro Tenda di Roma, vi mangiava e vi dormiva e a ciclo continuo animava ogni tipo di iniziativa, fino allo spettacolo serale, intervallato da battute con il pubblico, la “bestia” amica-nemica da domare per l’ennesima volta.

Nel 1992 fu protagonista del suo ultimo kolossal teatrale a Genova: “Ulisse e la balena bianca”, tratto da Melville e altri, con cui fece varie tappe internazionali. Si era rimesso in gioco, mettendo a disposizione della gente la sua onnivora cultura letteraria, ma capì di non avere più le forze necessarie perché non era possibile, come amava dire, che si potesse aver diritto a due vite: quella di prova, come a teatro, e l’altra da vivere con l’esperienza acquisita. Il suo ultimo spettacolo, “Anima e corpo. Talk show d’addio”, gli servì per raccontarsi ancora: lui protagonista più di qualsiasi altro personaggio interpretato. Come sempre, possiamo dire.

Abitò in Calabria. Lavorò in Sicilia

Nella vita di Vittorio Gassman ci sono anche incontri con Sicilia e Calabria. A cinque anni abitò per un anno a Palmi Calabro, dove il padre ingegnere era impegnato in costruzioni antisismiche. Un periodo che non aveva mai dimenticato, tanto che nel film “Il Mattatore”, diretto da Dino Risi nel 1960, trovò modo di far citare al suo personaggio-truffatore un impensabile aeroporto privato nel comune calabrese.
Nello stesso anno, il suo “Adelchi” messo in scena sotto un tendone da circo toccò prima Reggio e poi Messina, dove fu montato nell’attuale villetta Quasimodo. Un successo strepitoso, di cui sono testimone. All’Accademia di Arte drammatica, fra i suoi compagni amici c’erano due messinesi: Adolfo Celi e Mario Landi. Quest’ultimo, diventato poi famoso come regista della serie tv “Il commissario Maigret” interpretata da Gino Cervi, diresse Gassman in alcune delle sue prime interpretazioni teatrali.

Con Adolfo Celi l’amicizia fu solida e duratura fino alla morte (1986) dell’attore messinese, che con lui aveva collaborato anche nella Bottega teatrale di Firenze, scuola per giovanissimi interpreti. Scuola che, alla fine degli anni Ottanta, ebbe come allievi tre messinesi: Giampiero Cicciò, Annibale Pavone e la compianta Celeste Brancato. Nel 1969 è ancora con l’amico Celi e con Luciano Lucignani, che gira il film “L’alibi”: i tre raccontano la loro antica amicizia fra fatti veri e storie inventate.

A Siracusa, fin dal 1950 con “I Persiani”, Gassman fu un grande protagonista delle rappresentazioni classiche. E con un attore siracusano, Salvo Randone, nella stagione 1956-’57 mise in scena un “Otello” ricordato non solo perché i due si scambiavano i ruoli di replica in replica, ma anche perché Gassman, quando non era in scena rimaneva dietro le quinte perché – diceva – voleva apprendere ogni particolare dell’arte di Randone. Più difficile il rapporto con i copioni di Pirandello. Nel 1962 Gassman mise in scena “Questa sera si recita a soggetto”, rielaborando il testo originale e puntando sulla superiorità dell’attore sul regista. Il pubblico per una volta non sembrò apprezzare e Marta Abba, che deteneva i diritti sul testo, gli fece causa. Alcuni anni dopo la giustizia diede ragione a Gassman.

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