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Ionesco Suite, ovvero il teatro dell’assurdo. A Firenze il lavoro diretto da Demarcy-Mota

Un mosaico di frammenti di opere note e meno note dell’autore

La poesia del testo che prevale sul forzato realismo della rappresentazione, l’intimismo della scrittura sconfessato dalla personificazione dell’attore che vende se stesso per diventare qualcun altro. Nasce da contraddizioni e conflitti che spesso rasentano la sofferenza, l’intenso rapporto di Eugène Ionesco con il teatro.

Un mix di odio e amore, tipico delle grandi passioni, che stenta a imboccare la strada della conciliazione. Una relazione che si sviluppa in modo non lineare, ripercorsa nelle sue tappe più significative Marie France Ionesco, figlia del grande drammaturgo, considerato con Beckett fra i padri del Teatro dell’Assurdo. L’evento, dal titolo “Perché scrivo?” (dall’omonimo saggio), si è svolto l’1 aprile nella Sala del Teatro dell’Institut français di Firenze, nell’ambito della nuova edizione di “Ionesco Suite”, prima realizzazione de “L’Attrice e L’Attore Europei”, partnership fra Teatro della Toscana e Théatre de la Ville di Parigiche, nel segno dei valori della Carta 18-XXI, redatta un anno fa dai due enti, intende creare un modello di teatro e attore aperto al sociale e alle sfide presenti e future.

La pièce è un mosaico di frammenti di opere note e meno note dell’autore, diretto da Emmanuel Demarcy-Mota (direttore del Théatre de la Ville) e in scena fino al 6 aprile al Teatro della Pergola, con l’inserimento nel cast di giovani attori del Teatro della Toscana, uno per replica. Scrittrice, traduttrice e docente, dedita a tener viva la memoria del padre, la Ionesco ha illustrato il rapporto del genitore con l’arte del palcoscenico, facendo emergere la storia complessa di un amore dalla genesi tormentata, che affonda le radici nella storia dell’uomo. Un percorso che si muove tra vero e verosimile, analizzato e vissuto nelle più intime sollecitazioni, assieme agli archetipi che lo sostengono.

Nei ricordi d’infanzia le sue radici, con lo stupore di un bimbo di fronte allo spettacolo delle marionette ai Giardini del Lussemburgo di Parigi. Quelle bambole che parlavano e si muovevano, governate dai fili, erano per lui lo spettacolo del mondo, più vero del vero. Ma il ragazzino si accorgerà presto che la recitazione sulla scena, quella con attori in carne e ossa, è tutt’altra cosa. Marie France cita i saggi “Note e contronote” e “Un homme enquestion” per dare ragione del cambiamento di rotta di quel giovane spettatore, analizzando i termini della successiva avversione per il teatro: «Non ho più amato il teatro dal momento in cui, perdendo qualunque innocenza e acquisendo spirito critico, mi sono reso conto dei grossi fili che lo reggono, e mi sono chiesto quali potessero essere i mostri sacri in grado di restituirmelo, e a nome di quale magia valida potessero ricostruire quella magia. Ma non c’era più magia».

Un pessimismo deciso, quindi, che nutrirà quel «malessere indefinibile» di fronte alla rappresentazione chiamato in causa da Ionesco più volte. Sofocle, Eschilo, Shakespeare gli autori di teatro più amati, ma solo per la qualità letteraria dei testi. Perché per il grande drammaturgo francese è la rappresentazione scenica che uccide il teatro, provocando malessere e angoscia:

«La presenza dei personaggi in carne e ossa distruggeva la finzione – confesserà a ClaudeBonnefoy- La realtà materiale limitata di questi uomini che si muovevano sulla scena uccideva l’immaginazione». Non a caso le prime pièce di Ionesco, “La cantatrice calva” e “La lezione”, saranno una messa in discussione della forma teatrale, commedia nella commedia, tanto scrittura per la scena quanto messa a repentaglio della scena stessa, indicandogli paradossalmente la via per amarla di nuovo: «Quando ho scritto per il teatro con l’intenzione di deriderlo, l’ho scoperto di nuovo sino a esserne affascinato. E ho capito cosa avrei dovuto fare: esplorare la natura stessa della teatralità, fare tabula rasa per risalire alle fonti dell’arte teatrale». Sarà quindi l’uomo, grande lettore e ammiratore di Jung, a riscoprire in se stesso le strutture e gli archetipi, gli schemi del teatro. Quindi sperimentare, far vivere con le sue pièce ciò che per lui costituisce la specificità del teatro. Un teatro che ricusa il pensiero coerente per lasciare spazio a contraddizioni, libere di prendere la scena.

In “Antidoti”, citando Pirandello, Ionesco ribadisce che in ciascuno di noi albergano diversi personaggi, e il teatro li fa parlare tutti, per mostrare fantasie, fantasmi e ossessioni universali. In teatro il dialogo non esaurisce la parola, poiché esistono altri mezzi per “teatralizzare” la parola stessa e portarla al parossismo. Sulla scena la vera misura è quella della “fuori misura”, come se il verbo stesso debba esplodere nella possibilità di contenere i significati. Nell’architettura delle immagini sceniche, universo visivo e uditivo, tutto è quindi permesso: incarnare personaggi come materializzare angosce e fantasmi, sino a far recitare gli accessori o far vivere gli oggetti. Perché a teatro tutto è linguaggio.

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