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Quel “giardino dei ciliegi” che diventa luogo dell’anima

In scena alla Pergola di Firenze con la regia di Roberto Bacci

Tolstoj parlando di Čèchov diceva che con i suoi strani racconti, tra commedia e dramma, «spaventava senza metter paura». E spaventa sì, ma senza metter paura nella sua drammatica dolcezza, «Il giardino dei ciliegi», andato in scena in prima nazionale al Teatro della Pergola di Firenze con la regia di Roberto Bacci (assistente alla regia Sofia Menci) che torna a dirigere il capolavoro di Anton Čechov con un gruppo di giovani attori e attrici del Teatro della Toscana. Tutti bravissimi (il regista è stato aiutato nella selezione da Pier Paolo Pacini) dovendo agire, dice Bacci, in uno spazio difficile, senza quinte, che tuttavia, possiamo aggiungere, simula la chiusura esistenziale, con sullo sfondo la città e l’immensa campagna russa. Uno spazio chiuso dove i personaggi sembrano girare a vuoto e si muovono come in un acquario, giacché il giardino-paradiso dei ciliegi, che presto sarà perduto, per diventare un luogo dell’anima, è solo da immaginare.
Rappresentato per la prima volta nel 1904 al Teatro d’Arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij, «Il giardino dei ciliegi» è l’ultimo lavoro di Čechov (pochi mesi dopo sarebbe morto in Germania), quattro atti abitati dalla tristezza propria delle cose che stanno per morire. Condensati in un solo intenso atto nell’adattamento drammaturgico di Stefano Geraci che nel rispetto del testo del drammaturgo e del suo ritmo restituisce tutte le note cechoviane (con grande attenzione per i rumori così vivi nel dramma), con una lettura aperta all’attualità. Bisogna ascoltare la terra, sembrano gemere gli alberi di ciliegio che, tuttavia, in conclusione del dramma, vengono inesorabilmente tagliati per fare spazio ai villini che la moda “turistica” del nuovo che avanza vuole al loro posto. Quel giardino così bello, «un mare bianco di fiori che uno uguale non ce n’è – ricordano Ljuba e il fratello Gajev – in tutto il governatorato», reso nello spazio scenico «come un pavimento di petali bianchi che prende vita – dice Bacci – , un non colore che diventa colore» e sul quale si muovono quasi in una danza gli attori con i bellissimi costumi di Elena Bianchini, cuciti addosso ai personaggi come una sorta di tristezza incollata sui loro pensieri scuciti. (assistente costumista Eleonora Sgherri, realizzati dalla sarta Valentina Gualandri e dal Laboratorio d’Arte del Teatro della Pergola).
Ljuba (Maddalena Amorini) vestita di rosso parigino, torna a casa nel suo dolce, adorato giardino («mia giovinezza, mia felicità» dice), e anche se è una donna provata dalle sciagure (la morte del figlio e del marito, un nuovo tossico amore) e dalle ristrettezze economiche, vive una dolorosa leggerezza nel ritrovare la sua casa, il ricordo dell’infanzia, gli affetti: la giovane figlia Anja (Maria Casamonti), la figlia adottiva Varja (Claudia Ludovica Marino), il fratello Gajev (Sebastiano Spada). Con loro il vecchio servo Firs (Alberto Macherelli Bianchini), la cameriera Dunjaša (Annalisa Limardi), la governante Šarlotta (Nadia Saragoni) e il mercante amico di famiglia Lopachin (Luca Pedron), l’ex “contadinello”, già figlio di servi della gleba, che diventato milionario comprerà all’asta il giardino per costruirvi villini. È il nuovo, così «volgare», come dice Ljuba, che implacabilmente si fa strada rivendicando secoli di sofferenze e umiliazioni. Ma veramente questa è la nuova classe nascente? Oppure «il mondo va verso una felicità più grande», come adombra Petja Trofimov (Emanuele Taddei), già precettore del bambino defunto, eterno studente e cercatore di sogni che nella sua tirata verso gli intellettuali progressisti che non sanno fare niente se non parlare, è portatore di utopie rinnovatrici. Ne è convinto, insieme alla giovane Anja, sicura che «nella nuova vita» - come dice alla mamma per consolarla - «pianteremo il nuovo giardino e tu sorriderai mamma e una gioia serena scenderà nei cuori».
Una speranza lieve che alleggerisce la pesantezza dell’accidia russa propria della classe aristocratica sullo scorcio dell’Ottocento e di certe povere anime che cercano l’oblio nello kvas e nella vodka, di fronte a cui il mantra di Lopachin «lavorare, lavorare bisogna» è non solo un rimprovero alla maldestra amministrazione del patrimonio dei due fratelli ma anche un arrogante autocompiacimento del proprio “valore”, consistente nel fare profitti («illustrissimo e di grandissimo ingegno» lo apostrofa il Pišèik di Davide Arena, proprietario terriero e “filosofo” del gruppo,che insieme al contabile Epidochov e al giovane lacché Jaša completa i personaggi).
Passa così un anno (le luci di Samuele Batistoni regolano lo scorrere della quattro stagioni) tra gesti e parole inconcludenti, patetiche feste e improvvisati giochi di prestigio (maestro prestigiatore Sergio Bustric). È chiaro che a tutti manca il talento esistenziale (persino alla saggia Varja, portatrice di concretezza pratica) sottolineato nel testo cechoviano e sulla scena da pause, reticenze, sospiri,da un andirivieni nevrotico, con le battute di qualcuno interrotte dall’entrata in scena di qualcun altro e la lingua franca dell’inconscio a riempire i vuoti. Rimane un generale disamore e la lontananza tra le generazioni, c’è chi va via e chi rimane, le valigie presenti sulla scena dall’inizio alla fine a rappresentare la precarietà. «Di colpo è come se tutti fossimo diventati superflui» dice Gajev e tra chi resta c’è il vecchio Firs, ai cui passi da malato fa eco un suono triste, come quello di una corda di violino che si spezza, la scure che si abbatte sugli alberi.
Suggestivi i canti russi, ucraini (le città di Kiev e Char’chov sono presenti nel testo cechoviano) e georgiani diretti dalla maestra di canto Francesca Della Monica, accompagnati dalla musica dal vivo, con la fisarmonica a dilatare tristezze.
Bravi assieme agli altri attori, Davide Diamanti, Ghennadi Gidari, Marco Santi, anch’essi giovani piante di quel giardino da curare che è il teatro.

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