Riavvolgere il nastro delle emozioni non è semplice. Sabato 12 giugno, per chi respira ossigeno e calcio, resterà nella storia. Un quarto d'ora può sconvolgere le esistenze. Lo ha fatto spesso, e anche ieri ci è andato vicino così. Quindici minuti. Ecco, in quei pochi giri di lancette agli spettatori di Euro 2020 è stato somministrato un frullato di sentimenti dal sapore indefinibile.
Dal Grande Torino alla Grande Danimarca
Prima di ieri, sempre per gli amanti del pallone di cui sopra, esisteva il ‘quarto d'ora granata’, in riferimento al Grande Torino. La leggenda narra che la corazzata di Ferruccio Novo, negli anni post-bellici, aveva un modo tutto suo per cambiare marcia durante le partite più complicate. Quasi come se, a pochi passi dal cornicione, fosse necessario uno scatto di reni per salvarsi. Accadeva sistematicamente che, Valentino Mazzola, leader tecnico del Torino, si sollevava la maniche e lanciava un messaggio emblematico ai compagni: diamoci dentro. E giù palloni nelle reti che neanche i pescatori con i cefali durante le giornate più prolifiche. Nessun trucco, nessuna magia. Il ‘quarto d'ora granata’, in realtà, era un modo di essere, uno scatto in avanti. Di tutta la squadra. Perché a compierlo da soli, quel passo, si fa fatica. Spostarsi in avanti, all'unisono, rende tutto più agevole.
Che tutto ciò non sia retorica, una volta di più, lo abbiamo capito tutti, ma proprio tutti, in quell'interminabile quarto d'ora di Copenaghen. Il primo a rimboccarsi le maniche per tentare di vincere la partita più importante è stato Simon Kjaer, capitano danese (da ieri il capitano di tutti, in realtà). Non è da chiunque infilare due dita nella bocca del compagno di squadra, nonostante il panico, a caccia di quella lingua che, in momenti del genere, può trasformarsi in un serramanico piantato nel petto. Kjaer lo ha fatto. E quando c'è stato da asciugare le lacrime di Sabrina Kvist Jensen, compagna di Eriksen, il difensore della Danimarca e del Milan non si è tirato indietro, sussurandole che, sì, sarebbe andato tutto bene, mentre il resto dello stadio, gli altri giocatori in campo e i sanitari mostravano espressioni di segno completamente opposto. Ma Kjaer lo ha fatto di nuovo. E quando, ancora, lo svenimento con massaggio cardiaco annesso rischiava di diventare uno show nello show di Euro 2020, sempre lui, il capitano danese, ha chiesto alle persone in campo che indossavano la stessa divisa e i suoi stessi sentimenti di creare una sorta di scudo umano. Il modo migliore per proteggere il suo compagno e per creare una sorta di energia potentissima e tale da potersi spingere tutti un passo in avanti. Proprio come quando c'è da muoversi all'unisono per raggiungere un obiettivo comune. Lo ha fatto, Kjaer. Lo hanno fatto anche i componenti dello staff medico scandinavo. Una spinta martellante sul petto di Eriksen, premendo forte su quella casacca e su quel numero 10. Talmente forte da doversi alternare. Funziona così quando bisogna tirarsi via dal cornicione prima di precipitare. Il resto lo ha fatto lui, il giocatore più rappresentativo della Danimarca e forse della sua storia, restando «aggrappato alla vita», prendendo in prestito le parole del medico sociale danese.
E mentre tutto ciò accadeva qualcuno, da lassù, osservava ammirato il quarto d'ora danese. Uomini disposti a mettere da parte il dolore personale per raggiungere la gioia di squadra. Magari, proprio in quell'istante, avrà deciso di chiudere un occhio e di lasciar perdere quel biondino che stava dribblando la morte insieme al resto dei suoi compagni.
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