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Le pulizie? Ora le fa lui: così la pubblicità rovescia gli stereotipi di genere

Le pulizie? Ormai, roba da uomini. Con buona pace di chi, come l'attrice Laura Chiatti ("l'uomo che passa l'aspirapolvere mi abbassa l'eros") si richiama ad un modello "all'antica", come lei stessa lo ha definito per spegnere le polemiche social che l'hanno travolta, con l'accusa di agitare stereotipi sessisti nella placida italianità pomeridiana di Domenica In.

Un segno tangibile degli equilibri sociali che cambiano, scardinando pian piano nell'immaginario collettivo anche i pregiudizi maggiormente consolidati, si può infatti ritrovare in maniera sempre più consistente nei codici di comunicazione pubblicitaria contemporanea, uno dei canali più popolari, in cui predomina l'impatto dell'immagine che, in pochi secondi e talvolta senza l'ausilio di testi, deve trasmettere un messaggio, commerciale certamente, modulato rispetto al pubblico di riferimento, ma comunque largamente decifrabile.

I cliché ormai superati
In particolare, analizzando i frame di alcune recenti campagne riferite a prodotti per la pulizia della casa si coglie un radicale mutamento nell'approccio iconografico rispetto a questa categoria merceologica: non sono più solo le donne a occuparsi delle faccende domestiche, anzi lo fanno anche e soprattutto gli uomini, stando al numero di passaggi tv. Addirittura, liberandosi pian piano anche da un altro classico, speculare cliché: quello del maschio solennemente imbranato, sgomento di fronte all'assoluta enormità dell'amministrazione domestica.
Risulta quindi ampiamente superata la rappresentazione dominante del secolo scorso, in cui una figura femminile lustrava la casa e rinvigoriva il focolare con il grembiule di merletto - magari appuntato su una gonna cortissima e un florido decolleté - e una figura maschile con giacca e cravatta rientrava con la valigetta, o se ne stava accomodata sul divano a leggere fumando, o a posare una mano sul capo dei pargoli prima di spedirli in cucina da mamma. Oggi invece i ruoli si ribaltano: lui pulisce casa, addirittura piroettando gioioso e consapevole con stracci e vaporizzatori, o stira, sistema il bucato, e prepara colazione, pranzo e cena ai bambini stando ai fornelli, mentre lei torna dal lavoro, o fa semplicemente altro senza essere devastata dai sensi di colpa.

Dai detersivi ai cleaning influencer
In principio fu "Mister Clean", il celeberrimo Mastro Lindo, l'omone delle pulizie che già nel 2017 sdoganò l'"homo detergens" con uno spot - lanciato in Usa addirittura al Superbowl e divenuto un cult - in cui, come il genio della lampada, magicamente usciva dall'etichetta del flacone e ricordando l'affascinante entità sovrannaturale di "Ghost" conquistava la protagonista femminile con lo slogan "un uomo che fa le pulizie è da amare". Oggi basta accendere la tv e fare un minimo di attenzione agli spot che si susseguono: candeggina, sgrassatore, anticalcare, carta da cucina, il famosissimo panno giallo multisuperficie, per vedere uomini in carne e ossa fare con simpatica leggerezza ciò che, molto verosimilmente, si fa sempre di più nelle case italiane (e non solo), e cioè ciò che serve alle necessità familiari (o da single).
Non solo curarsi del giardino, o dell'automobile o dei "lavori tecnici di precisione" (riparazioni, manutenzione delle apparecchiature elettriche o digitali, in cui ormai peraltro l'intercambiabilità è reciproca), ma anche riordinare un armadio o un cassetto, sparecchiare, azionare la lavastoviglie (o la lavatrice se già giunti al livello avanzato...), preparare lo zaino e la merenda dei figli. E, perchè no, passare il fatidico aspirapolvere in salotto, o addirittura stirare la camicia (o, almeno, sapere come si fa...) e persino cucinare un pasto completo senza la necessità di lavande gastriche o dei vigili del fuoco.
E per eventuali consigli, è possibile consultare i numerosi "cleaning influencer", donne e uomini che sul web si dilettano a suggerire come prendersi cura del luogo in cui si vive. Un'attività che fa anche stare meglio, migliorando il benessere e la dimensione personale, individuale o familiare, e che si diffonde sempre più proprio tra gli uomini, come emerso dal report realizzato da una nota azienda di elettrodomestici, complici anche i lunghi periodi di lockdown che hanno incrementato il tempo trascorso tra le mura domestiche, facendone spesso riscoprire il significato e il valore in termini di accoglienza e conforto.

La sentenza della Cassazione e il codice civile
Per chi ancora titubasse, può essere utile ricordare che persino la Corte di Cassazione si è pronunciata sull'argomento, con una sentenza che ha fatto giurisprudenza sociale anche nel definire la dimensione normativa dell'equilibrio di genere, sulla strada che conduce all'affermazione di una parità reale attraverso la progressiva ma implacabile eliminazione di tutti i residui, ideologici prima ancora che legislativi, generati dalla concezione misogina del secolo scorso (patria potestà e preclusione nell'accesso alle forze armate e alla magistratura, solo per citare alcuni casi di diritti negati alle donne e poi ripristinati per legge).

Dunque la Suprema Corte, con la sentenza 24471 del 2014, si richiama a ciò che il nostro ordinamento già prevede (pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, così come enunciato dall'art. 143 del codice civile), affermando che anche gli uomini hanno sia la capacità che il dovere di occuparsi delle faccende domestiche e annullando di conseguenza una sentenza della Corte d'Appello di Venezia.
Quest'ultima aveva negato a un uomo il risarcimento del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico affermando che"non rientra nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo". Una motivazione sottoposta alla Cassazione che, ribadendo come il lavoro domestico sia sicuramente una "utilità suscettibile di valutazione economica, e che la perduta possibilità di svolgerlo costituisce un danno risarcibile", mette in dubbio un presunto "ordine naturale delle cose" affermato dai giudici d'appello e conferma che il riparto del lavoro domestico tra i coniugi è "ovviamente frutto di scelte soggettive e costumi sociali", di sicuro non sindacabili da un giudice. "L'aver riportato, a seguito di un incidente stradale e come nel caso in oggetto, lesioni gravi e invalidanti che per parecchio tempo hanno costituito impedimento al regolare svolgimento del lavoro domestico, rappresenta sicuramente idonea fonte di risarcimento del danno". Il ragionamento della Corte d'appello - secondo la Cassazione - è stato quindi "errato e discriminatorio, avendo presunto, sulla sola base del sesso maschile, che l'interessato non apportasse alcun vantaggio domestico diretto alla famiglia". Quindi poiché "la perduta possibilità di svolgere lavoro domestico costituisce un danno patrimoniale, pari al costo ideale di un collaboratore cui affidare le incombenze che la vittima non ha potuto sbrigare da sè", il ricorso è stato accolto e la sentenza d'appello cassata con rinvio.

Il "miracolo" dell'aspirapolvere
Dunque, la "pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia" non va intesa solo in senso finanziario - né limitata alle unioni formalizzate - e non è una graziosa concessione, o una scenetta idilliaca riservata al Mulino Bianco (giusto per restare in tema pubblicitario), ma un obbligo etico, prima ancora che normativo. Anzi, molto di più.
Chiunque ha legittimamente diritto di avere - ed esprimere - una visione di sé, e degli equilibri di coppia o di genere, senza per questo dover subire valanghe di odio, virtuale o reale. Ma certamente un'iconografia che scardina gli stereotipi e comunica una reale intercambiabilità dei ruoli, lungi dallo "smorzare" può invece solo "accendere": può esaltare le personalità (binarie, e non solo) e costituire il substrato reale, quotidiano, in cui si coltiva quella parità universalmente invocata ma che in mancanza di concretezza non può andare oltre l'ideale costituzionalmente sancito.

Così come la desinenza al femminile è il fondamento primario del riconoscimento intellettuale e sociale delle donne, anche un immaginario in cui non sussistono più rigidità tra cose "da donne" e "da uomini", tra "rosa" e "azzurro", alimenta quell'approccio "arcobaleno", quell'urgenza DEI (Diversità Equità Inclusione) che soprattutto le giovani generazioni manifestano in maniera sempre più inappellabile.

Una declinazione preziosa, quella di genere, tutt'altro che arma di "distrazione di massa", come provocatoriamente affermato da Ambra Angiolini sul palco del Concertone del 1 maggio ("tenetevi le vocali, ridateci la retribuzione"): usare le parole al femminile non "distrae" affatto, anzi focalizza la specificità delle donne, e non deve essere percepita come azione antitetica alle urgenze "di sostanza", ma come l'"arma" migliore per affrontarle. E proprio sul linguaggio delle pari opportunità può fondarsi tutto il resto, compresa l'equità salariale: farsi definire al maschile non aiuta la parità, ma la soffoca sottacendo tutte le peculiarità che, anzi, potrebbero persino portare maggiori vantaggi.

E, dunque, anche un gesto semplice come la collaborazione domestica, in regime di reciprocità e condivisione, può diventare il presupposto per consentire realmente a tutti i componenti di un nucleo familiare (e ciò vale a prescindere dal genere, e in misura rapportata all'età) di contribuire solidarmente alle necessità generali, che sono individuali e collettive, ricavandosi lo spazio e il tempo per curare i propri interessi, ricreativi e lavorativi: il "miracolo" sociale dell'aspirapolvere.

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