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Atp Finals Torino, la triste staffetta azzurra: Berrettini come Dorando Pietri e Sinner come... la Danimarca

Quando il maratoneta italiano Dorando Pietri tagliava (si fa per dire) il traguardo delle Olimpiadi di Londra, nel 1908, Matteo Berrettini e Jannik Sinner non facevano nemmeno lontanamente parte del progetto di Dio. Ma neanche i loro genitori e... i loro nonni. Essendo così giovani (classe 1996 il tennista capitolino e 2001 il collega altoatesino), il numero 1 e il numero 2 d'Italia avranno, al massimo, solo sentito parlare - magari accompagnando gli aneddoti con delle immagini di repertorio - della miracolosa Danimarca calcistica del 1992. Già, ma che c'azzeccano un maratoneta del 1900 e i danesi d'inizio anni 90 con i nostri del tennis? Lavorando un po' di fantasia, il legame è pertinente.

Dorando e le stampelle umane

Dorando Pietri incarnava e incarna lo spirito dell'italiano: mai domo, oltre i confini della resistenza umana. E il piccolo maratoneta dai lunghi baffi si presentò al traguardo londinese esattamente in queste condizioni, dopo il lungo sforzo: più morto che vivo, ma in testa alla gara. Sospinto dalla forza di volontà fino all'ingresso finale nello stadio, preludio al giro finale. Una sorta di passerella che conduce alla gloria, agli allori. Peccato solo che Pietri varcò l'ingresso della struttura londinese allo stremo delle forze, sbagliando anche... il verso. Ci volle il supporto di alcuni volontari, che lo scortarono fisicamente verso il traguardo, per concludere la maratona. Logicamente, le “stampelle” umane non piacquero ai giudici, che lo punirono squalificandolo. La regina volle comunque consegnare un riconoscimento al piccolo italiano che aveva offerto prova di grande coraggio, arrendendosi solo di fronte alla consapevolezza di essere un uomo, in carne e ossa. Con lo stesso tormento di Pietri, Matteo Berrettini si è visto costretto ad abbandonare il sogno delle Atp Finals di Torino. Un traguardo strameritato, frutto di una seconda parte di stagione da standing ovation e della finale di Wimbledon (in quella Londra che, 113 anni prima, aveva strizzato l'occhio all'altro italiano) persa contro l'inumano di nome Nole Djokovic. Una dolorosa fitta alla schiena nel bel mezzo di una partita stratosferica contro il tedesco Alexander Zverev. Al cospetto dei suoi tifosi che, virtualmente, lo hanno rialzato e condotto verso gli spogliatoi. Piangeva a dirotto, inzuppando la maglietta già colma di sudore, consapevole della gravità dello stop.

Ripescaggio con vista... sul Paradiso

In questa triste staffetta in salsa italiana che sono diventate le Atp Finals di Torino, balza alle cronache un altro figlio virtuoso del Bel Paese: Jannik Sinner. Come in un gioco fratricida, crudele esattamente come il mors tua via mea, la realizzazione del sogno del tennista classe 2001 inizia esattamente dove quello del suo amico Matteo ha vissuto i titoli di coda. Ma proprio perché tra i due regnano rispetto e amicizia non sarà la stessa cosa. Tutti, ma non lui. Un passaggio di consegne forzato, che magari sarà addolcito da un confronto. “Jannik, fatti valere. Fallo per me”. E se ancora non bastasse per regalare lo stato d'animo ideale al ventenne del Trentino Alto Adige, qualcuno potrà sempre tirare fuori la storia della Danimarca campione d'Europa, esclusa dal verdetto del campo alla competizione del 1992 e ripescata dopo l'estromissione della Jugoslavia. Eppure vinsero loro. Non sarà facile, non lo era stato neanche per i danesi richiamati dalle vacanze per scrivere la storia.

No, in fondo le storie dei nostri Matteo e Jannik non sono poi così distanti dalle imprese epiche degli eroi del passato.

 

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