Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Simone Moro, il recordman delle montagne con il cuore a Panarea e alle Eolie

Tenterà per la quarta volta di scalare l'ottava montagna più alta del mondo, il Manaslu: "Un anno della mia vita vissuto tra -10 e -50 gradi centigradi nel sogno di scalare gli 8163 metri del Manaslu in invernale. Mi sono preparato tanto e ho studiato una strategia diversa. Vediamo se funziona…".

«L'impossibile è l'alibi della nostra resa». Questa frase  riassume perfettamente la sua vita. Mancano pochissime ore alla sua prossima pazzesca avventura sotto i cieli. Simone Moro, classe 1967, alpinista bergamasco, tenterà per la quarta volta di scalare l'ottava montagna più alta del mondo, il Manaslu, e il vicino East Pinnacle, situati nella catena dell'Himalaya. Alla vigilia della partenza,  l'elicotterista ed esperto in soccorsi in alta quota, l' unico uomo ad aver scalato quattro cime di otto mila metri d'inverno e senza ossigeno, si è raccontato alla Gazzetta del Sud. Un ritorno sulle nostre pagine. Dopo l'evento del 2019,  in cui è stato protagonista in uno degli appuntamenti più prestigiosi della stagione degli eventi culturali promossi dalla “Fondazione Raya”. E proprio Panarea, resta nel suo cuore.  L' isola che lo ha stregato per i paesaggi mozzafiato  dove era libero di girare in maglietta,  con lo Stromboli sullo sfondo, dove ha trovato  l'ispirazione anche  per scrivere il suo decimo libro. E confida che nell'undicesimo, "A ogni passo" edito da Rizzoli,  avrebbe voluto mettere come immagine di copertina una foto che il fotografo genovese Luigi Gritti,  amante di Panarea,    gli scattò durate l'evento estivo.  Moro mira il cielo stellato con il figlio Jonas. Destinatario della sua ultima fatica letteraria.

 

Simone Moro, lei è partito sapendo che doveva vincere una sfida che agli occhi di tutti  appariva impossibile. Si ricorda gli inizi?

Io provengo da una zona dell'Italia che non ha una tradizione alpinistica. Perché se non sei nato nelle Dolomiti, o in Val d'Aosta, è difficile avere questa vocazione. A Bergamo abbiamo avuto tanti ciclisti importanti, l'Atalanta in serie A ad altissimi livelli, ma mai abbiamo avuto una tradizione alpinistica. Difficile che un ragazzo di Bergamo, come me, potesse sognare di diventare un bravo alpinista. Eppure, io sognavo di diventare maledettamente bravo. Avevo 9 anni quando andavo con i miei genitori e i miei fratelli  in vacanza sulle Dolomiti. Andavamo a fare lunghe camminate, a raccogliere funghi, a scoprire sentieri e vie ferrate. E così mi sono innamorato della verticalità. E questo  contatto con il pericolo mitigato  mi ha fatto capire che non ero un bambino sfigato, ma un bambino che poteva fare l'esploratore,  anzi che si sentiva già esploratore. Che usciva dall'ordinario, facendosi guardare dalla gente.  Ero l'unico protagonista dei miei sogni e  sapevo che dovevo gestire da solo nervosismo, stress e abilità fisiche e mentali.

 

Insomma ha rimescolato le carte...

Sono il secondo di 3 figli, di una famiglia umilissima. E grazie all'alpinismo ho capito che non era scritto da nessuna parte che avrei dovuto avere una vita per forza ordinaria. Dovevo e potevo puntare a un percorso che mi portasse a qualcosa di straordinario. Ma non perché volevo dimostrare qualcosa a qualcuno, ma perché mi sentivo vivo.  Volevo sentirmi vivo.  Non ero un predestinato, perché non avevo le montagne a portata di mano. Il mio doveva essere un percorso di ricerca, dovevo essere io a cercare le montagne. Ho avuto sempre tanta fame nell'andare a cercare i miei terreni d'azione, e ancora oggi  ne ho tantissima.  Questo mi ha allenato alla resilienza e alla determinazione.

 

Il suo segreto?

Nessuno. Forse ho avuto più fame rispetto a tanti miei coetanei che ci hanno provato e non ce l'hanno fatta. Non credo di avere avuto più talento, ma forse quella  dedizione quasi stoica che ho messo negli allenamenti, allenandomi anche la notte, e più volte al giorno, ha fatto la differenza. E la mia storia potrebbe essere paragonata forse a quella di Pietro Mennea. Non era un predestinato, ma si preparava senza sosta, ed è diventato il più grande velocista della storia. Anche se molti dicevano: "guarda questo, sta ammazzando la sua vita". Diversamente da altre attività, come il calcio, l'alpinismo è poco mediatico e meno compreso dalla gente.

 

E per questo si è armato di penna?

Un calciatore non ha bisogno di raccontarsi, le partite le vedono tutti e ha tantissimi giornalisti e una società che parlano di lui. Noi veniamo etichettati invece come pazzi e spericolati. Quindi ho capito che era necessario non solo che facessi le mie imprese, ma anche che le narrassi. Che mi raccontassi. Solo che dovevo usare un vocabolario potabile. Così ho cercato di imparare da quelli bravi e di leggere parecchio. E imparare dai pochi alpinisti che avevano deciso di raccontarsi. Ho sempre detto che Reinhold Messner è stato il mio faro, il mio punto di riferimento, e ho capito da lui come bisognava fare.  E mia ha insegnato anche cosa non volevo fare. Non volevo essere una sua copia, ma me stesso. Oggi la gente ha bisogno di storie, di storie vere, non di nozioni. I nozionisti hanno vita breve.  Il mio ingrediente vincente sta nella normalità. Se sei un uomo comune, che non ha una famiglia ricca e abita anche in un posto sfigato, deve fare emergere il fuoco che ha dentro. E il fuoco brucia tutte le difficoltà.

 

E Panarea?

A Panarea ho iniziato a scrivere il mio decimo libro. Ho imparato a parlare come scrivo, una cosa difficilissima. Ai tempi della scuola ho avuto un'insegnante di italiano, che mi diceva che mai sarei stato capace di scrivere una pagina di senso compiuto. Mi aveva dato dell'ignorante e me la sono legata al dito. Sono anche stato bocciato, per i troppi interessi extrascolastici. ( tra cui l' alpinismo) Oggi invece il male è proprio non avere interessi extrascolastici. Era giusta la bocciatura, ma solo perché non studiavo, non perché fossi un ignorante. E non solo ho scritto una pagina di senso compiuto, ma ho scritto tanti libri.  Di mio pugno.

 

É tornato in libreria con una nuova “impresa letteraria” che segue quelle dell'aprile scorso, “Il team invisibile” scritta a 4 mani con Marianna Zanatta, e dell'ottobre del 2020, “Ho visto l’abisso”. “A ogni passo. Le storie di montagna e di vita che racconto a mio figlio”, edito da Rizzoli, è uscito il 16 novembre. Cosa racconta in questo libro?

Racconto  storie vere vissute quando ero io stesso ragazzo ed adolescente. E attraverso queste storie provo a stimolare i giovani a diventare protagonisti del proprio presente e futuro. E non spettatori di  intrattenimenti musicali , televisivi e app. Cerco di far venire ancora voglia di scoprire, esplorare, toccare, annusare, ascoltare,  gioire, soffrire, temere.  Tutte sensazioni e situazioni da vivere al di fuori dalle quattro mura.

 

É  in procinto di partire per la prossima spedizione. Al Manaslu, nel Nepal. Cosa si aspetti da questa avventura e come si è preparato?

Spero che la pazienza sia ripagata. É il quarto tentativo, altri tre mesi che si aggiungono ai nove che già ho dedicato a questo progetto. Un anno della mia vita vissuto tra -10 e -50 gradi centigradi nel sogno di scalare gli 8163 metri del Manaslu in invernale. Mi sono preparato tanto e ho studiato una strategia diversa. Vediamo se funziona…

 

Cosa le ha insegnato scalare una montagna? E dove trova gli stimoli per continuare a farlo dopo aver raggiunto le cime più alte del Mondo?

Mi ha insegnato che di facile non c’è nulla. Mi ha insegnato ad avere pazienza, a fallire, a tenere duro nei momenti difficili ma anche ad essere assiduo e tenace  e a non  mollare mai.

 

Ha scalato ben 4 volte l'Everest e le prime 4 salite invernali: Shisha Pangma, Makalu, Gasherbrum e Nanga Parbat. Qual è stata la sua impresa più dura? E quale la più bella

Difficilissimo dirlo. Forse il Nanga Parbat è la montagna dove sono arrivato in cima più stanco in assoluto nella mia carriera. La più bella è stata la prima invernale al Shisha Pangma nel 2005 perché forse in quel momento ho riaperto una pagina di storia alpinistica che si pensava ormai chiusa per sempre. Quella delle invernali a 8000 metri.

 

La Sicilia, e in particolare Panarea e le Isole Eolie  l' hanno stregata . Che rapporto  ha con questa isola meravigliosa? 

Mi sono davvero innamorato di queste isole anche se ho passato solo alcuni mesi su questo pezzo di mondo selvaggio incastonato nel nostro mare italico.  Sono luoghi selvaggi, in equilibrio perfetto tra antropizzazione e rispetto del’ecosistema naturale. Una perla da preservare e valorizzare

 

Secondo lei cosa serve per vedere davvero la Sicilia rinascere? Cosa manca alla nostra terra?

Mi verrebbe da dire che servirebbero  semplicemente il rispetto delle regole, civiche, ambientali, fiscali e di legalità. Soffro a vedere una terra che potrebbe essere la perla e la “svizzera” del mondo ridotta a usufruire e beneficiare del 1% del suo potenziale. Rifiuti, energia, turismo, agricoltura, economia, trasporti  sono temi ed aspetti che necessiterebbe di una bella rivoluzione culturale prima ancora di quella economica.

 

Ha paura ogni tanto?

La paura è il contachilometri dell'autoconservazione. Quando hai paura è come avere fame, sete o sonno. È avere una pulsione. E negare una pulsione è un suicidio. Perché quando io ho ascoltato le mie paure, sono sempre tornato a casa sano e salvo. Perché la paura è di livelli diversi a seconda delle persone, ma quando sento di avere paura, cerco di fermarmi prima che io veda il pericolo. Ho rinunciato tante volte, con il dubbio che probabilmente sarei arrivato  in cima. E questo dubbio mi ha fatto arrivare fin qui vivo».

 

Tag:

Persone:

Caricamento commenti

Commenta la notizia