La mostruosa invasione. Le cosche calabresi già padrone di imprese commerciali ed esercizi di ristorazione nel centro e nord Italia oltre che in Germania, Francia meridionale, Slovacchia, Spagna, Belgio, Polonia, Romania, Olanda, Svizzera, hanno esportato dalla terra di origine, insieme alle montagne di denaro frutto del narcotraffico, anche un “modello” sperimentato di conquista progressiva del territorio.
Un “modello” adottato per decenni in Calabria e che prevede la lenta infiltrazione della economia e delle istituzioni locali. Come? Allestendo imprese che nel campo edilizio e del movimento terra alterano il mercato, costringendo le aziende “pulite” a desistere.
Gli ’ndranghetisti corrompono i politici attraverso la dazione di denaro o il sostegno elettorale ottenendo vantaggi imprenditoriali negli appalti, nella destinazione d’uso dei terreni, nella concessione di licenze edilizie. Nel contempo eliminano le imprese rivali minacciandone i manager o incendiandone i mezzi e i cantieri.
I COMUNI SCIOLTI. Così è stato per lungo tempo in Lombardia, in Emilia Romagna, in Piemonte, nel Lazio dove per effetto della presenza dei boss calabresi sono stati addirittura sciolti per mafia, in tempi diversi, dei consigli comunali: Brescello (Reggio Emilia), Leinì e Rivarolo Canavese (Torino), Sedriano (Milano), Ostia e Nettuno (Roma).
AZIENDE E BANCHE. La 'ndrangheta è capace di impossessarsi di grandi aziende come è accaduto con la “Perego strade” in Lombardia, di call center come nel caso della “Blue Call srl” sempre in Lombardia, di mettere in piedi, al Sud come al Nord, “banche” private che finanziano con tassi usurari imprenditori in difficoltà con l’obiettivo finale d’impadronirsi delle loro aziende.
Inquietanti e significativi, appaiono poi i legami intessuti in questi anni dai boss con il mondo delle professioni. Illuminante, in tal senso, appare quanto accaduto a Bologna con la consulente finanziaria Roberta Tattini, poi condannata per mafia, che era divenuta il punto di riferimento del padrino di Cutro, Nicolino Grande Aracri, “capocrimine” della Calabria centrosettentrionale.
E lascia senza parole pure il tentativo del narcotrafficante vibonese Vincenzo Barbieri che nel decennio scorso, prima di essere assassinato nel 2012 a San Calogero, tentò di diventare “finanziatore” occulto del Credito Sammarinese, versando all’istituto bancario in difficoltà economiche, centinaia di migliaia di euro da riciclare.
SOCIETÀ DI CALCIO
E che dire, ancora, dell’infiltrazione in Settentrione dei nostri malavitosi, come già era accaduto in Calabria, nelle società calcistiche: l’Asti e il Parma. Nel sodalizio sportivo piemontese avevano messo mani e piedi i Catarisano, originari del Vibonese, per questo arrestati e rinviati a giudizio. A parere dei pubblici ministeri torinesi, le cosche avrebbero addirittura usato gli impianti sportivi anche per tenere gli incontri tra associati.
Domenico e Giovanni Catarisano sarebbero stati, infatti, nominati amministratori della “Asti Calcio Football Club” consentendo così al loro congiunto Giuseppe di prendere decisioni sul finanziamento della società sportiva, sui pagamenti dei calciatori, sulla gestione dei rapporti con la tifoseria. Il calabrese Rocco Zangrà, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, sarebbe stato persino assunto dall’Asti Calcio al fine di ottenere una modifica ed una attenuazione delle prescrizioni che gli erano imposte.
Nella compagine emiliano-romagnola per un certo periodo figurava tra i soci Franco Gigliotti, 50enne imprenditore di Torretta di Crucoli ma residente a Montechiarugolo di Parma, arrestato e poi condannato in primo grado per effetto del maxiblitz “Stige”. L’uomo è ritenuto dai magistrati antimafia di Catanzaro, guidati da Nicola Gratteri, un «facoltoso imprenditore di riferimento della consorteria ‘ndranghetistica di Cirò Marina». Gigliotti era socio del Parma calcio, di cui deteneva il 3,55% pari a 15mila azioni, ma anche sponsor del rugby a Colorno e del calcio a Noceto e Felino.
L’imprenditore viene descritto da Francesco Farao, figlio pentito del superboss Giuseppe, come una persona di famiglia. «Ricordo che – racconta Farao – nel periodo in cui mio fratello ha iniziato a lavorare per Gigliotti, dal 2013 circa in poi, Vittorio era solito tornare da Parma con dei soldi in contanti che lo stesso Franco Gigliotti appositamente consegnava a lui per il sostentamento carcerario di nostro padre».
COSCHE SULLE ALPI
Nessuno immaginava che addirittura la Valle d’Aosta fosse diventata un “feudo” dei calabresi. Le inchieste condotte negli ultimi mesi dalla Dda di Torino hanno portato all’arresto del consigliere regionale Marco Sorbara dell’Union Valdotaine, dell’assessore comunale di Saint Pierre (Aosta) Monica Carcea e del consigliere comunale di Aosta Nicola Prettico.
Sott’inchiesta sono finiti pure, poche settimane addietro, il presidente della Regione Valle d'Aosta, Antonio Fosson, che si è dimesso dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per scambio elettorale politico mafioso in merito ad un'inchiesta sul condizionamento delle Regionali del 2018 in Valle d'Aosta da parte della 'ndrangheta. Anche gli assessori Laurent Viérin (turismo e beni culturali) e Stefano Borrello (opere pubbliche) hanno scelto di asciare per le stesse ragioni il loro incarico.
Il consigliere Luca Bianchi, invece, ha lasciato l'incarico di presidente di commissione e di capogruppo dell'Union valdotaine perché indagato, come i colleghi, per voto di scambio. In mezzo alle Alpi per decenni hanno trovato rifugio importantissimi latitanti della ‘ndrangheta provenienti dalla Locride, la Piana di Gioia Tauro e il melitese. Non solo: pochi ricordano che il 13 dicembre del 1982, con un’autobomba, qualcuno tentò di far fuori nel pieno centro di Aosta il pretore Bruno Selis.
Il magistrato - era il 13 dicembre del 1982 - rimase ferito quando mise in moto la sua Fiat 500 al cui cruscotto era colllegato l’esplosivo. Il togato indagava sui mafiosi che riciclavano denaro nel Casino de la Valee di Saint Vincent e sui loro legami con i politici valdostani. Le sue indagini vennero poi approfondite dal procuratore di Torino, Bruno Caccia, poi ucciso dalla ‘ndrangheta il 28 giugno del 1983.
L'ASSESSORE E I BOSS
In Piemonte dove con le operazioni “Minotauro” e “Carminius” erano state disarticolate le cosche dominanti nel Torinese, è stato l’arresto dell’assessore regionale Roberto Rosso, 58 anni, di FdI, a riaprire il dibattito sulla presenza della ’ndrangheta. Rosso avrebbe infatti pagato 15.000 euro ai malavitosi calabresi per ottenere un pacchetto di voti in vista delle elezioni regionali del maggio 2019. I suoi referenti? Onofrio Garcea e Francesco Viterbo, riorganizzatori, secondo la Dda torinese, della ’ndrina di Carmagnola.
LA TERRA DI SAN FRANCESCO
Nell’Umbria del “poverello di Assisi”, le Dda di Reggio e Catanzaro, guidate da Giovanni Bombardieri e Nicola Gratteri, hanno ordinato 27 arresti proprio nella prima decade di dicembre. La ragione? Presunti appartenenti alle cosche Trapasso e Mannolo di San Leonardo di Cutro ed a quella dei Commisso di Siderno si sarebbero infiltrati nel tessuto economico umbro.
Attraverso la costituzione di società spesso intestate a prestanome o a persone inesistenti “producevano” fatture per operazioni commerciali mai realizzate, truffavano istituti di credito e riciclavano denaro sporco. Nell’inchiesta compare il nome pure di Cosimo Commisso, detto “u quagghia”, storico leader dell’omonima famiglia.
Il boss era impegnato nell’individuare terreni nella zona di Perugia da destinare a vigneti per la produzione di vino da commercializzare in Canada. A Toronto, peraltro, la ’ndrangheta sidernese vanta da decenni sue ramificazioni. Commisso manteneva anche contatti in Umbria con esponenti di altre organi con esponenti del locale di San Leonardo di Cutro.
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