La metà della spesa per il reddito di cittadinanza, circa 3 su 6 miliardi di euro previsti, potrebbe finire nelle tasche di persone che lavorano in maniera irregolare, i cosiddetti «lavoratori in nero» e in quelle delle loro famiglie.
Lo sostiene l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, sulla base delle anticipazioni apparse nei giorni scorsi sulla misura, che valuta in poco più di 4 milioni di persone la platea potenziale, in 1.375.000 nuclei familiari. Citando l’Istat, la Cgia ricorda che in Italia ci sono poco meno di 3,3 milioni di occupati che svolgono un’attività irregolare. Se da questo numero rimuoviamo i dipendenti che lavorano anche irregolarmente ma non potranno chiedere il reddito e i pensionati che non hanno i requisiti per accedere al reddito di cittadinanza - pari, in linea di massima, a 1,3 milioni di unità - coloro che svolgendo un’attività irregolare potrebbero, in linea teorica, percepire questa misura sarebbero 2 milioni (tra i quali casalinghe, formalmente inattivi, studenti ecc); vale a dire la metà dei potenziali aventi diritto.
La regione più «a rischio» è la Calabria che, secondo gli ultimi dati disponibili (anno 2016), presenta 140.700 lavoratori in nero e un’incidenza del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil regionale pari al 9,4%, quasi doppio rispetto al dato medio nazionale (5,1%). Segue la Campania con 372.600 unità e un Pil in «nero» dell’8,6%. Al terzo posto la Sicilia, con 303.700 irregolari e un peso dell’8,1%.
Le realtà meno interessate dalla presenza dell’economia sommersa sono Friuli Venezia Giulia, con 56.400 irregolari e il 4,1% del Pil regionale; Lombardia, con 485.600 e 3,9%, Veneto con 197.600 lavoratori in nero e 3,8% del Pil regionale.
Per il coordinatore dell’Ufficio studi, Paolo Zabeo, «a causa dell’assenza di dati omogenei relativi al numero di lavoratori in nero presenti in Italia che si trovano anche in stato di deprivazione, non possiamo dimostrare con assoluto rigore statistico questa tesi. Tuttavia vi sono degli elementi che ci fanno temere che buona parte dei percettori del reddito di cittadinanza potrebbe ottenere questo sussidio nonostante svolga un’attività lavorativa in nero, sottraendo illegalmente alle casse dello Stato un’ingente quantità di imposte, tasse e contributi previdenziali. In altre parole, l’Amministrazione pubblica, al netto delle misure di contrasto previste - conclude - sosterrà con il reddito di cittadinanza un pezzo importante dell’economia non osservata».
«Con la diffusione dell’economia sommersa - osserva il segretario della Cgia, Renato Mason - a rimetterci non è solo l'Erario, ma anche le tantissime attività produttive e dei servizi, le imprese artigiane e del commercio che spesso subiscono la concorrenza sleale di questi soggetti. I lavoratori in nero infatti, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, assicurativi e agli oneri fiscali, consentono alle imprese dove prestano servizio, o a loro stessi, di beneficiare di un costo del lavoro molto inferiore e conseguentemente di praticare un prezzo finale del prodotto/servizio molto contenuto. Prestazioni, ovviamente, che chi rispetta le disposizioni previste dalla legge non può offrire», conclude.
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