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Giorgia atlantista sfegatata al Colle con due filorussi “pentiti”

Giorgia Meloni

L'editoriale del direttore Alessandro Notarstefano

Oggi tocca a Giorgia Meloni e ai suoi “alleati” salire al Colle. Le virgolette ci stanno tutte, perché Salvini & Berlusconi, quelli della strombazzata «destra di governo», che hanno affiancato Mario Draghi per venti mesi, hanno fatto di tutto, o quasi – dal 25 settembre –, per complicare il lifting della leader di Fratelli d’Italia, impegnata per ventiquattr’ore al giorno a nascondere le visibili rughe del postfascismo, dell’ultranazionalismo, e a ripulire la rubrica telefonica (troppi i numeri sconvenienti sparsi tra l’Ungheria, la Spagna, la Polonia).
Il leader della Lega si è limitato ad arrecare all’indiscussa premier “in pectore”, scopertasi moderata in vista di Palazzo Chigi, fastidi prevalentemente “casalinghi”. Ha un chiodo fisso, Salvini: il Viminale. Antico lucroso amore, ché i migranti hanno fruttato più consensi a lui che soldi agli scafisti. Sicché su questo ha insistito, sul ministero dell’Interno rimastogli nel cuore, fingendo di non capire che Meloni vuole assolutamente evitare rogne – pure dall’Europa arriverebbero, eccome, alla prima nave bloccata con donne e bambini a bordo –. Inoltre, a causa della vicenda “Open Arms”, tutt’altro che chiusa, già da Mattarella potrebbe essere sollevata qualche “perplessità” intorno al nome di Salvini se destinato al Viminale. Silenziate, invece, le simpatie per Putin del colorito capo del Carroccio: messa la sordina, in qualche modo, intorno ai suoi viaggi (fatti o vagheggiati) in Russia, e a citazioni e t-shirt inneggianti allo zar del Cremlino, “modello forte” cui rifarsi, altro che gli smidollati leader occidentali con attributi meno che ordinari! Naïf, Salvini, ben diverso da come lui si percepisce: Meloni non ne sembra impensierita affatto.

Differente il discorso per Silvio, che appare totalmente fuori controllo, specie da quando è stato umiliato da Meloni che ha negato a Licia Ronzulli, prediletta del Cavaliere, un posto nel governo. Berlusconi ha preso apertamente a scalciare: prima l’exploit su Casellati, data con certezza alla Giustizia, a dispetto dell’indicazione di FdI che in quella “casella” vuole Nordio; poi il leader di FI ha sparato ancora più in alto, assolvendo di fatto l’amicone Putin per la guerra in corso e dando ogni colpa all’Ucraina di Zelensky e alla mediocrità dei timonieri occidentali – salvo poi, più tardi, provare ad ammorbidire i concetti –. Un colpo micidiale che mina la credibilità di Meloni atlantista dopo tutti i sacrifici fatti nel tentativo di scrollarsi di dosso un’eredità troppo connotata a destra, difficile da far digerire a Bruxelles e all’attuale America, quantomeno fino alle elezioni di medio termine – in caso di successo repubblicano, per Kiev inizierebbero giorni meno facili –.
C’è atlantismo e atlantismo: c’è una vicinanza alla Nato e agli States che nel nostro Paese (e non solo) parla ancora... “democristiano”; c’è un’adesione che invece passa per il “credo” ultranazionalista – da declinare e diffondere a tutte le latitudini possibili –, nella consapevolezza che il fondamentalismo patriottico trova sempre l’humus migliore nei format decadenti (con le nuove povertà in aumento) che sopravvivono a fatica da questa parte e dall’altra dell’Atlantico. Così è svelato finalmente l’arcano, così soltanto si spiega come si possa, in apparente contraddizione con se stessi, essere poco europeisti e, al contempo, pasdaran dell’atlantismo. L’Europa rappresenta un’insidia per gli identitarismi nazionalisti, l’atlantismo – più generico – li ospita dando loro comfort e prospettive.
L’«operazione militare» di Putin in Ucraina è criminale: giova ripeterlo, per evitare fraintendimenti. Ma l’atlantismo tout court, l’allinearsi supino alla politica americana, non è cosa di cui andar fieri. Porsi acriticamente innanzi alla Nato, il “sissignore” incondizionato al politicamente corretto, di qua del nuovo muro, nemmeno questo va bene.
L’atlantismo di Meloni, così gridato, non può che insospettire: stamani, con i suoi alleati filorussi – sentimento, il loro, fin troppo chiaro (sebbene rinnegato) e ben più deprecabile –, la leader FdI incontrerà il Capo dello Stato. La destra, che si prepara a governare il Paese, racconterà d’essere coesa e, forte dei numeri in Parlamento, dirà d’essere pronta. Davanti al Presidente della Repubblica bisognerà mostrare soprattutto senso di responsabilità partendo dalla promessa di garantire continuità fuori dei muri di casa. Perché su questo l’Italia, le tasche degli italiani non possono scherzare. E su questo Mattarella sarà, c’è da giurarci, intransigente. Atlantismo, dunque, col pensiero al popolo ucraino, ma anche per “ragion di Stato”. O, nel caso di Salvini & Berlusconi, per “ragion... di governo”.
L’europeismo è sacro e va aiutato a crescere, l’atlantismo – i postdemocristiani lo hanno compreso più dei postfascisti – andrebbe predicato con maggiore disincanto. Sobrietà, se preferite.

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