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Revenge porn, quando i giornalisti rischiano il “favoreggiamento”

La notizia è che il “pianeta informazione” è malato. Soffre di un… acciacco senile, dopo secoli di onorato e logorante servizio.  Un malanno riconosciuto anche dall’Organizzazione mondiale della sanità e  definito  “infodemia”,  neologismo che combina, appunto,  informazione ed epidemia. Secondo la definizione del vocabolario Treccani si tratta della circolazione di una quantità eccessiva di dati e notizie «talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili».

Ce ne eravamo già accorti senza la necessità di scomodare chi, come l’Oms, prima ancora che divampasse la pandemia da coronavirus con la sua travolgente babele mediatica, in un report del 2 febbraio ha lanciato l’allarme per  una  «massiccia infodemia» che rende «difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno».

E, si badi bene, non è solo colpa dei tanto biasimati social network, ma anche di noi giornalisti (o sedicenti tali), sempre più incapaci di gestire il flusso inesauribile di gigabit e onde elettromagnetiche.

Certo, in mezzo a questo colossale frastuono gli spazi per i professionisti (e i troppi dilettanti) dell’informazione diventano sempre più irrilevanti, ma sul campo di battaglia online  spesso reporter e redattori, presi dal panico, usano armi improprie come  titoli “acchiappaclic”, rincorrendo a pettegolezzi o affondando in un mortificante sensazionalismo. Oppure, infischiandosene di obsolete (secondo loro) e frustranti regole deontologiche, pubblicano anche l’impubblicabile in preda al demone dell’audience.

Immaginate se, paradossalmente, su uno dei numerosissimi siti di news che nascono come i funghi, qualcuno, accampando il diritto di cronaca, nel redigere la notizia di un attentato compiuto da un lupo solitario,  decidesse di descrivere per filo e per segno “come costruire una bomba artigianale” (potrei scommettere che sia successo anche questo in qualche angolo del villaggio globale).

Qualcosa di molto simile, ad esempio, come denuncia in questo video Matteo Flora, fondatore e presidente dell’azienda no profit PermessoNegato.it, avviene quando  di fronte ai nuovi casi di “revenge porn” (o “pornovendetta”, della quale parliamo in questo articolo), la stampa “pubblica in bella mostra i nomi dei gruppi, dei canali e delle piattaforme di messaggistica istantanea “aiutando - ai limiti del favoreggiamento - gli utenti male intenzionati”.  Ogni volta che ciò accade, la diffusione di dettagli e riferimenti fa impennare notevolmente il numero di sottoscrizioni e accessi a questi “buchi neri” dell’illegalità.

Una comunicazione “più oculata, razionale e responsabile degli eventi” ripete con necessaria insistenza Flora, eviterebbe di “fornire informazioni utili alla identificazione e al rintracciamento” delle vittime di questo vile “crimine sessuale” riconosciuto come reato il 19 luglio del 2019, con l’approvazione del “Codice rosso”.

Mea culpa, anzi, nostra maxima culpa. Dietro quei numeri ci sono persone, e noi giornalisti non dovremmo mai dimenticare che la libertà di stampa finisce dove comincia la libertà di uomini,  donne e bambini protagonisti delle nostre narrazioni del quotidiano.

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