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Davide Shorty e la sua "Regina" a Sanremo 2021: "Libertà è partecipazione"

Davide Shorty, in gara tra le Nuove Proposte con "Regina"

“Regina” cosa l'ha ispirata?
«Una storia d'amore di quel momento. L'ho scritta un paio di anni fa con la mia band (pianista palermitano, Claudio Guarcello; Emanuele Triglia, il bassista, è di Reggio Calabria e Davide Favarese di Sapri; il chitarrista è il barese Alessandro Donadei), una band super meridionale. Lei, una regina sovrastata dai drammi della vita. Cercavamo casa, facevamo progetti... e io ho messo tutto dentro ad una canzone. Quando ho finito di scriverla (in un'ora!) non smettevamo di ascoltarla e... Spacca, ci siamo detti, tra una pacca sulle spalle e l'altra. Ho avuto una visione: raga, ma vi immaginate portarla a Sanremo? È un pezzo italiano ma con tutte le nostre influenze, il tradizionale non tradizionale. Me lo immaginavo con gli archi...».

Ce lo raccontava proprio lui, Davide Shorty, una delle 8 Nuove Proposte di Sanremo 2021 (in scena dal 2 al 6 marzo). Proprio alla vigilia della finale di Sanremo Giovani, quando ha scoperto che dal palco del Casinò sarebbe arrivato fino all'Ariston.

«Non pretendo di essere bandiera ma darò il massimo per essere l'artista migliore che posso. Andrò a Sanremo per rappresentare la buona musica», ci ha confessato in una lunga intervista, parlandoci della sua città del cuore, del suo mondo d'adozione e di tutto quello che ci sta in mezzo, tra sensazioni ed esperienze, dentro e fuori casa. Lui, siciliano di Palermo trapiantato a Londra, che sulle contaminazioni musicali ci ha costruito una carriera («riguardo la mia musica, i paragoni sono lusinghe»), come la sua terra d'origine. Quella Sicilia influenzata ma caratteriale, che ha trasformato la mescolanza in identità.

Palermo l'hai lasciata 11 anni fa, cosa ti stava stretto della tua città?
«Il siciliano modello mi stava stretto. Ero creativo e screditato. Mi si rispondeva… ma dai! Ma di lavoro invece che vuoi fare? Me ne sono andato perché è paradossale che una terra col patrimonio culturale che ha la Sicilia abbia poi una mentalità chiusa quando si tratta di gestirlo. Sono sempre stato contagiato dalle circostanze, sono molto recettivo in fatto di energia e quando attorno a me è negativa ne risento. Avevo vent'anni, era l’età giusta per mettermi alla prova».
Londra ti assomiglia?
«Senza dubbio. Fredda ma libera, caotica, multiculturale, musicale, accogliente. Il livello degli artisti con cui mi sono confrontato era più alto di quello a cui ero abituato».
In che lingua pensi quando scrivi?
«Sono arrivato a Londra che masticavo l’inglese grazie alla musica, avevo l’orecchio allenato. Lì mi sono accorto che l'identità si spalma sulla lingua. Io ho una personalità molto diversa quando parlo o scrivo in inglese rispetto a quando lo faccio in italiano. Sono un ibrido e mi piace».
Ti ha fatto mai sentire straniero?
«Strano più che straniero. Ha a che fare con la curiosità. Mi sentivo straniero pure in Italia, il siciliano è straniero anche in Sicilia. Come cittadino del mondo, sono straniero dappertutto o non lo sono da nessuna parte».
Poi sei tornato in Italia per X Factor. Lo metti tra le cose belle, sul libro nero o nella terra di mezzo?
«X Factor mi ha riconnesso alle mie radici, alla tradizione cantautorale italiana. Ascoltavo Tenco, Battisti, Gaber, De Andrè, Concato... tutte influenze che musicalmente mi hanno aperto un mondo. Soul, funk, jazz, hip hop, elettronica... io cerco dappertutto, con la mente aperta».
Quello che ascolti si sente in quello che scrivi...
«È come l'accento, si deve sentire!».
Ma...?
«Il post X Factor mi ha causato scompensi talmente profondi che per un periodo ho quasi rimpianto di averlo fatto. Non sapevo come sfruttare quella forza mediatica. Essere “quello di X Factor” toglie identità, ma poi ci ho fatto pace».
Anche Sanremo Giovani ha una gran forza mediatica...
«La differenza tra quell'esperienza televisiva e questa è che oggi nessuno mi sta mettendo addosso un vestito che non voglio indossare. Sanremo degli ultimi anni si è rinnovato, penso a Diodato, a Ghemon, Mahmood... Alessandro ha rivoluzionato il pop italiano. La mobilità ci ha fatto tutti migranti e questo ci mescola e si sente».
Mahmood è un “rappresentante”?
«Di un'altra faccia della medaglia, la faccia di chi può raggiungere i propri sogni a prescindere dalla faccia. Io, se dovessi scavare nel mio albero genealogico, chissà che ci troverei».
Te ne sei occupato in “Non respiro”...
«Da parte di un bianco è fondamentale parlare di queste cose, capire come essere buon alleato. Dire Black Lives Matter non può solo essere di moda. Né vuol dire che i neri siano più importanti dei bianchi, ma che tutti siamo uguali».

Non c'è mai stato quel momento risolutivo in cui si decide di fare qualcosa per la vita. Davide Shorty lo ha sempre saputo, «l'ho sempre dato per scontato. Era noto a tutti il fatto che volessi essere un cantante sin da piccolo».

Come d'altro canto non aveva progettato "Regina" pensando a Sanremo, è successo e basta. Un primo tentativo a vuoto, «rifiutata da chi mi gestiva allora perché troppo complicata, raffinata». Poi l'ostinazione, la determinazione, la convinzione che «essere umani complessi ci arricchisce, semplificare peggiora. Questa è la prova che la legge di attrazione esiste!».

Tra vincere e partecipare? «Per quanto mi riguarda, partecipare. Perchè, come insegna il buon Gaber, libertà è partecipazione».

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