Nessun refuso. Una volta tanto la classica rubrica del lunedì di Gazzetta del Sud online non si chiamerà Bar sport ma Var sport. Già Var, come la tanto discussa tecnologia mandata sulla Terra in supporto alla classe arbitrale. Un'ammazza gioie, secondo molti. Strumento necessario, per i restanti. Tertium non datur, come sempre avviene sul pianeta calcio che divide e governa da quando esiste quella cosa di cuoio che rotola, divertendosi a creare frotte di guelfi e frotte di ghibellini. Con la Var, è stata la stessa cosa. Guai, però, a dimenticare il motivo per cui la “stampella” arbitrale è diventata la nuova var... iabile (e che variabile) nel corso dei 90 minuti (si fa per dire, dato che ormai, anche grazie o per colpa dell'assistente virtuale, nel complesso le partite durano ben oltre la canonica ora e mezza): ovvero per restituire la verità dei fatti. E ci vorrebbe una Var per tutto: sul lavoro, in famiglia, durante la partitella con gli amici. Ci vorrebbe la Var, certo. Perché nella società di oggi in cui tutto scorre a una velocità supersonica, a mo di scroll dello smartphone per passare da un post a un altro, godersi il momento è pura utopia, speranza vana. E allora apriamo la nostra personale (e temporanea) finestra Var per rivedere cosa è stato. E cosa, ahinoi, perderemo per sempre.
Quelli che... salutano: infinita tristezza
Il frame (sportivo, logicamente) scelto è quello degli anni '90 (e poco dopo), epoca d'oro del nostro calcio. Stagioni in cui gli artisti della pedata più forti di tutti si precipitavano in Italia, i miliardi scorrevano a fiumi nelle casse dei club e gli stadi - alcuni nuovissimi grazie al restyling operato per far sì che i Mondiali di Italia 90 si giocassero su palcoscenici degni di tal nome (e in molti casi, oggi, a quel “lifting” si è rimasti, salvo una sporadica mano di vernice qua e là...) - erano popolati da famiglie. Pieni e colorati. Un sogno. La narrazione domenicale e cromatica (domenicale perché le partite si giocavano in contemporanea, fatta eccezione per un paio di anticipi/posticipi; cromatica perché chi ha vissuto da appassionato quell'epoca non può dimenticare il tripudio di colori di una squadra o dell'altra che occupavano i bordi dello schermo in occasione di ogni gol) era affidata al genio di Paolo Beldì, Marino Bartoletti e Fabio Fazio, rispettivamente regista, ideatore e “frontman” del brillante gruppo chiamato “Quelli che il calcio”. Citare personaggi, cronisti, ospiti e inviati (rigorosamente sugli spalti delle gare) rischierebbe di trasformare la celebrazione in una lunga lista della spesa, senza anima. Ecco perché ci affidiamo al messaggio di una delle menti del programma, Marino Bartoletti, per rendere l'idea di cosa è stata quella trasmissione Rai. Da far leggere a chi verrà il post che ha celebrato la fine della trasmissione (che negli anni ha cercato di cambiare pelle e mettersi al passo coi tempi, ma si è dovuta arrendere allo share, al calcio-spezzatino e alle pay-tv) avvenuta, tristemente, giovedì 2 dicembre 2021, dopo 28 anni di vita.
Pasquale Golia come Greta Beccaglia: nessuna differenza
Il caso della giornalista molestata ha tenuto banco per una settimana, salvo via via affievolirsi. Come spesso accade per episodi del genere che meriterebbero altri tipi di attenzioni e provvedimenti ben al di là dei Daspo e dei pistolotti moralisti usa-e-getta. Servirebbe enfatizzarli ulteriormente e non banalizzarli o etichettarli come goliardate. L'unico modo per estirpare una cultura radicata, retaggio di una società che, piaccia o no, non esiste più. Var anche in questo caso. Perché poi tanto si scopre, a stretto giro di posta, che chiamarsi Greta Beccaglia o Pasquale Golia, vivere in Toscana o in Calabria, essere uomo o donna non fa differenza. Il fotografo cassanese offeso dallo steward “a causa” del suo aspetto fisico durante la partita di serie B Cosenza-Cremonese è solo l'ultimo freno, in ordine cronologico, al meccanismo chiamato evoluzione della razza umana. Palpeggiare è offensivo (oltre che un reato), discriminare è offensivo (reato anche questo).
Simon Kjaer come John Coffey: non c'è gloria per i salvatori
Ultima finestra multimediale dedicata a Simon Kjaer, colui il quale, il 12 giugno 2021, pur non indossando un mantello o manifestando poteri soprannaturali, è diventato il supereroe di tutti. Il capitano di tutti, anche di chi non ha familiarità con i colori della Danimarca o il rossonero del Milan. Aver “protetto” la vita (fino al risveglio) di Christian Eriksen, il numero 10 dei danesi, è un gesto che non ha niente a che fare con lo sport o la solidarietà da compagno di squadra, va molto oltre. A distanza di mesi, il destino ha completato l'opera a modo suo: nel giorno del ritorno all'attività agonistica (seppur in maniera blanda) di Eriksen, a Kjaer è stata diagnostica la lesione del legamento crociato: 6 mesi di stop. Quasi come in una sorta di passaggio di consegne maledetto. Quasi come avveniva nel libro-capolavoro di Stephen King, Il miglio verde, poi trasformato in un'opera cinematografica altrettanto emozionante, quando John Coffey, il gigante-buono finito per sbaglio nel “braccio della morte” salvava le vite assorbendo il male altrui, a rischio di mettere a repentaglio la propria esistenza. Ma in questa storia, come nell'altra, quella vera in salsa danese, è chiaro a tutti che c'è di mezzo un supereroe. Senza neanche il bisogno che venga mostrato un mantello.
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